Due anni di “Primavera Araba” hanno dimostrato che le rivolte non sono tutte uguali. Le rivendicazioni scelte, le modalità messe in atto e il contesto in cui si inseriscono ne modificano lo sviluppo a tal punto che, anche in uno stesso Paese, le conseguenze delle mobilitazioni possono prendere forme assai diverse. In tal senso ci sono ribellioni che nascono e finiscono in una stagione mentre altre rimangono latenti per anni per poi riacquistare vigore in particolari contesti, dimostrando una continuità ed un radicamento difficilmente rintracciabili in altre esperienze.
Esemplificative in questo senso sono le lotte degli operai egiziani.La regione che si estende dal Delta del Nilo al Canale di Suez è un’area ad altissima concentrazione industriale. In questi territori, le proteste hanno accompagnato la vita dei lavoratori da molto prima che si iniziasse a parlare di Primavera Araba tanto che le manifestazioni contro le politiche economiche governative e le politiche industriali locali del 2006 e del 2008 in città come Mahalla al Kubra sono state, a posteriori, considerate come prodromi della più ampia lotta iniziata nel 2011. Se durante il Governo Mubarak gli operai protestavano per la mancanza di leggi sulla sicurezza sul posto di lavoro e per maggiori diritti in campo lavorativo, la salita al potere dei Fratelli Musulmani non ha significato un miglioramento delle loro condizioni e scioperi ed occupazioni di fabbriche sono ricominciati.
Alessandria, Tanta, Mansura, Mahalla, Port Said, cuore pulsante dell’economia industriale egiziana, sono, ad oggi, centri nevralgici di una lotta che, bloccando produzione e porti, rischia di mettere a dura prova il sistema economico del Paese, già indebolito dalle conseguenze della Primavera. Se nel caso di Port Said la scintilla che ha rianimato la protesta è stata la condanna a morte di 21 persone per la strage avvenuta allo stadio l’anno passato, nelle altre città appare centrale il ruolo della componente operaia. Un conflitto tra il Capitale, incarnato dal Partito Libertà e Giustizia e dalle sue politiche neo-liberiste, e il Lavoro. Le cronache ci parlano, infatti, di un’eterogenea opposizione al Governo che, unendo le rivendicazioni di soggetti con esperienze molto diverse, ha identificato alcune parole d’ordine comuni dalle quali partire: pane, libertà e giustizia sociale. Le rivendicazioni concrete e contingenti si sono, così, legate ad aspirazioni di più ampio respiro.
Le richieste non sono, però, state ascoltate e la risposta repressiva è stata violenta. Se alla Portland-Titan Cement Company di Alessandria i manifestanti in occupazione sono stati attaccati dai cani poliziotto, fuori dalle fabbriche decine di sindacalisti sono stati minacciati ed aggrediti e le notizie di morti e feriti durante le manifestazioni fanno ormai parte della quotidianità. In questo contesto, nonostante le contrapposizioni religiose e politiche abbiano a lungo fomentato divisioni e rivalità, la percezione della volontà di prevaricazione da parte delle Stato e degli industriali locali che, con la scusa delle politiche governative, hanno inaugurato una stagione di tagli e licenziamenti, ha indotto una coesione delle diverse componenti sociali in un’ottica di classe.
La transizione non è, però, né semplice né immediata. Se, da un lato, bisogna ricordare che la dura risposta del Governo, fatta di aggressioni, rapimenti e torture, rischia di restringere le file della protesta, è altrettanto necessario evidenziare che queste proteste, sostenute e organizzate anche grazie all’apporto dei sindacati indipendenti, mancano ancora di una prospettiva di lungo periodo. L’avversione ad un nuovo Governo che avrebbe dovuto, nelle speranze di molti, rendere reali e concrete le promesse della Rivoluzione non può, infatti, essere sufficiente a modificare radicalmente il sistema politico e sociale del Paese. La strada è ancora lunga e solo l’interazione tra le diverse anime della protesta potrà determinare un futuro che, al momento, non è scritto.