Stop killing in Tibet
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Stop killing in Tibet

Sono arrivati da tutta Europa i tibetani per unirsi a Bruxelles e chiedere senza sbraitare ma con forza e coraggio la libertà per il loro popolo. [Francesca Ferrua]<br>

(Foto di Davide Dutto)
(Foto di Davide Dutto)
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10 Marzo 2013 - 18.23


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da Bruxelles

Francesca Ferrua

Gare Centrale, Bruxelles, ore 8.Grigio, freddo, umido.

Partiamo a piedi con zaini, sciarpe e bandiere. Quelli in cui camminiamo sono una fila ininterrotta di ampi corridoi le cui pareti sono edifici alti, squadrati, freddi. Il cielo è sempre grigio, la pioggia fine continua a scendere.

Gare du Nord. I colori e l’atmosfera iniziano a mutare. È qui che si stanno radunando tibetani provenienti da tutta l’Europa (e non solo) per la prima grande manifestazione europea per la liberazione del Tibet.

10 marzo 1959: prima rivolta in Tibet contro l’occupazione cinese. Da allora, ogni anno, i tibetani di tutto il mondo ricordano questo evento. Ma fino ad ora ogni Paese organizzava una manifestazione nazionale.

Oggi invece, 10 marzo 2013, qualcosa è cambiato: i tibetani si sono dati appuntamento a Bruxelles. E non a caso. Bruxelles, Europa, Commissione Europea. L’unione fa la forza. Già, la voce dei tibetani ora si sente di più, è più forte e rimbomba tra i palazzi grigi e alti della capitale. Non la alzano, però, la loro voce: è più forte perché le voci si sono unite. Solo così potevano fare i tibetani, senza sbraitare, tutti insieme, in coro, a chiedere le stesse cose: la richiesta alla Commissione è quella di continuare ad appoggiare la causa tibetana e in particolare di fare pressione sulla Cina, favorendo il dialogo, chiedendo che i media e le delegazioni possano entrare in territorio tibetano per riferire sulle autoimmolazioni e difendendo i diritti umani oggi ignorati e calpestati.

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È come un mantra, questa voce.

STOP KILLING IN TIBET!

STOP KILLING IN TIBET!

Sono così diversi i tibetani che rispondono in coro “In Tibet!”. Di qualunque età, vestiti all’occidentale o in abiti tradizionali, con i capelli bianchi raccolti come le nostre nonne o tirati su in una cresta come quella dei punk, coperti fino alla punta delle orecchie come richiede il clima di questo Paese o con un braccio esposto alla pioggia come fanno i monaci che aprono il corteo.

I colori dei tibetani si mischiano a quelli degli occidentali e non sono solo il rosso scuro e l’arancione che siamo soliti associare ai monaci. Sono anche il giallo e il blu della bandiera tibetana.

Sono questi i colori che uniscono tutti quanti, membri del parlamento in esilio e famiglie, tibetani residenti in ogni Paese europeo, tibetani e occidentali. È la voce delle persone, della gente comune, degli uomini che chiedono dialogo, libertà.

WHAT DO YOU WANT? WE WANT FREEDOM!

E mentre giovani e vecchi, tibetani e occidentali camminano mostrando un cartello che dice BURNING e mostra il volto dei 107 ragazzi che si sono auto-immolati dal 2009 a oggi, la voce all’unisono dice che il Tibet ha bisogno di vita, non di morte; di non-violenza, non di rivolte; di dialogo, non di guerra; di diritti umani, non di repressione.

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La consonanza delle richieste di tutti, qui, è spontanea e profondamente umana, non richiede accordi su risposte ufficiali da dare alla politica e ai media: l’unione è il fil rouge che scorre in mezzo agli oltre 10mila piedi che oggi stanno calpestando l’asfalto bagnato della capitale d’Europa.

È l’unione dell’Europa con il Tibet, delle istituzioni ma anche delle popolazioni di tutti i Paesi europei al popolo tibetano, è la nostra unione con loro, dell’uomo con l’uomo. E questa è la cosa più importante, la più vera, quella su cui non si può discutere.
Siamo in Europa. Siamo in Tibet.

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