di Rosanna de Giovanni
Il governo tibetano in esilio in India ha dichiarato il 2013 l’anno di solidarietà al Tibet per richiamare l’attenzione del mondo su una tragedia che continua ininterrotta dal 1950, anno in cui il Tibet, paese da sempre indipendente, venne invaso ed annesso alla Cina. Il 10 marzo 1959 la popolazione di Lhasa, la capitale del Tibet, insorse contro quella che era stata riconosciuta, a buon diritto, un’ aggressione ingiustificata ed illegale. La rivolta venne brutalmente repressa nel sangue. Un milione e duecentomila tibetani, un quinto della popolazione, morirono come diretto risultato dell’occupazione. Il Dalai Lama dovette fuggire e trovò riparo in India che da allora è divenuta la sede dell’esilio di una nuova storia.
Per il Paese delle Nevi ebbe inizio una lunga notte buia, una catena di violazioni dei più elementari diritti umani. Checchè se ne dica la situazione nel Tibet occupato non è mai cambiata, ha ancora sempre la faccia dura da regime totalitario. Migliaia di prigionieri politici e religiosi sono detenuti in carceri e campi di lavoro forzato dove la tortura è pratica comune, le donne sono costrette ad aborti e sterilizzazioni forzate, i nomadi hanno dovuto abbandonare i loro territori, uccidere il bestiame ed essere deportati in linde casette dove si stanno consumando di depressione e miseria.
A nulla sono valsi in tutti questi anni i diversi tentativi, condotti sotto la guida del Dalai Lama, di un confronto improntato al principio della nonviolenza, di richieste per la concessione di una reale autonomia amministartiva e culturale del Tibet all’interno del territorio cinese. La risposta è sempre stata la chiusura, la mistificazione della realtà, la repressione. Il 2008 è stato per i tibetani in Tibet l’anno della speranza, speranza affidata alle Olimpiadi che avrebbero potuto essere un’occasione unica per un cambiamento di rotta, i riflettori del mondo erano puntati su Pechino che cercava la propria legittimazione di grande potenza attraverso i Giochi.
Mi colpì allora l’indifferenza, o meglio la non volontà e la miopia, dei governi occidentali incapaci di schierarsi decisamente dalla parte della verità e della giustizia rispondendo con una qualche azione concreta al “grido di dolore” che si levò dal Tibet al mondo.
Mi colpisce ancora di più oggi la stessa indifferenza, la stessa ignorante incapacità. Spentisi i riflettori dei Giochi Olimpici, il governo cinese ha ripreso con maggior vigore la politica di sempre stringendo in una morsa ancora piu oppressiva le aspirazione alla libertà. Si badi bene: libertà di parlare la propria lingua, esporre la propria bandiera, tenere un’immagine del Dalai Lama, affermare che il Tibet non è Cina. La speranza si è spenta in molti, dal 2009 ad oggi sono 107 i tibetani, uomini e donne monaci e laici di ogni età, che hanno scelto di immolarsi dandosi fuoco. Pechino li considera pericolosi terroristi e non riuscendo a fermarli ha iniziato a perseguitare le loro famiglie, le comunità di origine, i monasteri. È impressionante e toccante leggere il lungo elenco dei loro nomi, guardare le fotografie che li ritraggono quasi tutti sorridenti. I tibetani sono un popolo coraggioso, forte e fiero che sta resistendo da più di cinquanta anni al proprio genocidio fisico e culturale.
A loro è dedicata la grande manifestazione di ieri, 10 marzo a Bruxelles, nell’anniversario della rivolta di Lhasa. Lo slogan è “il Tibet ha bisogno di te, adesso”. Dalla solidarietà che sicuramente verrà manifestata da molti, anche dalle Istituzioni europee, si deve, a mio parere, dare vita ad una nuova campagna di iniziativa politica che dia forza all’obiettivo del raggiungimento di una autonomia sostanziale del Tibet attraverso il riconoscimento immediato, da parte dell’UE, del Governo tibetano in esilio come unico e legale rappresentante dell’intero popolo tibetano. Faccio mia e sostengo la proposta avanzata da Olivier Dupois, già deputato europeo e membro dell’intergruppo per il Tibet che riporto testualmente: “..sarebbe opportuno promuovere la creazione di un gruppo di Paesi amici del Dalai Lama e del Tibet che si impegnino a procedere congiuntamente e simultaneamente a questo riconoscimento. Oltre gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, l’Unione europea edi suoi 27 paesi membri, sarebbe di primaria importanza che l’India, il Giappone, la Turchia, il Brasile, l’Africa del Sud, l’Argentina, il Messico (e, in generale, ogni Paese democratico interessato) si unissero all’iniziativa. Qualcuno potrebbe pensare che un tale obiettivo equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra alla Cina. Salvo che, di dichiarare guerra alla Cina, nessuno se lo sogna. Il contrario (la Cina che dichiara guerra) è meno sicuro visti i precedenti”.
Il tempo stringe, il Tibet brucia, non ce la fa più ad aspettare che la Cina si trasformi, e noi popoli d’Europa vogliamo davvero che si consumi un’altra Shoah?
[GotoHome_Torna alla Home]