Fanno il girotondo i bambini della scuola del minuscolo villaggio palestinese di Imneizel. Altri, con un pallone un po’ sgonfio, provano a sfidarsi in un improbabile match di volleyball. È un giorno di festa. Niente lezioni. La scuola è invasa da una quarantina di giornalisti giunti in autobus, quasi tutti palestinesi. C’è anche l’inviata della popolarissima, da queste parti, tv araba al Jazeera a rendere l’evento ancora più eccezionale per una comunità di 500 persone a cui forse capita di vedere più israeliani che palestinesi. Imneizel infatti è a ridosso dalle alte recinzioni di sicurezza della colonia ebraica di Mesadot Yehuda e da un ampio posto di blocco militare dal quale si entra in Israele. Sull’altro versante c’è uno spettacolo mozzafiato della natura, le stupende colline della Cisgiordania meridionale, a sud di Hebron. Le piogge abbondanti dell’inverno, che quest’anno stenta a terminare, le hanno colorate di verde e giallo, come di rado accade da queste parti.
«Abbiamo organizzato questo tour per farvi rendere conto delle situzione di questa scuola e dell’intera comunità di Imneizel», spiega una funzionaria di Echo, l’agenzia europea incaricata per i programmi di emergenza. «In questa zona – aggiunge – tutto è soggetto alle restrizioni imposte dalle autorità militari. Siamo in area C della Cisgiordania e qui fa e dispone soltanto Israele».
Costruire in questa porzione di terra palestinese è una impresa per i palestinesi. Le richieste sono sistematicamente respinte dalle autorità di occupazione e chi costruisce senza attendere il permesso presto o tardi vede arrivare le ruspe dell’esercito. E ciò che è vietato ai palestinesi si rivela facile e senza alcun problema per i coloni israeliani che pure vivono in Cisgiordania violando la legalità internazionale. Appena il governo israeliano approva la costruzione o l’espansione di una colonia, subito scattano i lavori di allacciamento alla rete elettrica e all’acquedotto. Per una comunità palestinese tutto ciò è fantascienza.
Prende la parola Fadi, il responsabile dello staff locale della ong italiana Gvc di Bologna, organizzatrice con Echo e Ocha (Onu) del tour e presente con progetti di sviluppo nei Territori occupati dal 1992. Il Gvc ha costruito accanto alla scuola una delle 14 cisterne di raccolta dell’acqua che sta realizzando per la comunità di Imnezel. «A quanto pare – riferisce con ironia Fadi – i comandi militari israeliani pensano che i nostri studenti debbano rimanere durante le lezioni senza bere e senza andare al gabinetto. Così hanno emesso un ordine di demolizione per la cisterna e i bagni della scuola».
Presidente, venga a vedereBarack Obama oggi arriva a Tel Aviv con l’Air Force One. È la prima volta che da presidente visita Israele e domani incontrerà anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. La scorsa settimana ha fatto sapere con una intervista televisiva che non presenterà un nuovo “piano di pace” e che si limiterà ad ascoltare idee e proposte di Abu Mazen e del premier israeliano Netanyahu volte a rilanciare le trattative ferme, di fatto, dal 2009. Meglio farebbe Obama ad ascoltare gli abitanti di questa parte poverissima della Cisgiordania. Capirebbe cosa vuol dire vivere sotto occupazione militare. Il presidente Usa parlerà e risponderà alle domande dei giovani israeliani nel Convention Center di Gerusalemme e dovrebbe avere il coraggio di incontrare anche i giovani palestinesi. Non quelli che vivono in città ma quelli che abitano in questa zona depressa della Cisgiordania, dove l’occupazione, oltre a tutto il resto, non ritiene necessario portare l’acqua e l’elettricità alle comunità più isolate ma fa il possibile per allontanarle, per costringerle ad abbandonare la zona C, spesso proclamando chilometri e chilometri quadrati di terra «aree militari chiuse» e poligoni di tiro. L’area C – circa il 61% della Cisgiordania che a venti anni dalla firma degli accordi di Oslo rimane sotto il completo controllo di Israele – conta circa 300.000 coloni israeliani, contro una popolazione palestinese che va dai 92.000 secondo le statistiche israeliane ai 150.000 censiti dalle Nazioni Unite.
In questi giorni tremano le quindici famiglie palestinesi della tribù Shalalda che hanno appena ricevuto l’ordine di abbandonare immediatamente le loro abitazioni che si trovano a al Janoub, a est del villaggio di Sair. Altrimenti saranno evacuate con la forza. Sono famiglie che da generazioni vivono in grotte situate in un’area che l’esercito utilizza per le esercitazioni militari. È l’ennesima minaccia di espulsione a sud di Hebron dove Israele tiene sotto pressione i residenti di otto dei 12 villaggi palestinesi nella cosiddetta «Firing Zone 918» (3 kmq popolati da circa 1.800 palestinesi) che l’esercito definisce frazioni «disabitate»: Tuba, Mufaqarah, Sfai, Majaz, Tabban, Fakheit, Megheir al Abeid, Halaweh, Mirkez, Jinba, Kharuba e Sarura. Otto di queste, quelle più meridionali, sono minacciate dall’ordine di espulsione: gli abitanti dovrebbero essere trasferiti a Yatta. Le quattro più settentrionali, popolate da circa 300 persone, sarebbero «salve». Tra una frazione e l’altra ci sono diversi insediamenti colonici israeliani.
A scuola con la scortaBarack Obama venerdì, dopo aver visitato la Chiesa della Natività di Betlemme, potrebbe approfittarne per spingersi nella Cisgiordania meridionale e cogliere l’occasione per accompagnare gli scolari del villaggio di Tuwane, lontano qualche chilometro da Imneizel, che da anni per andare a scuola devono essere scortati da volontari internazionali e da una jeep dell’esercito perchè i coloni israeliani di Havat Maon mal sopportano quel passaggio accanto al loro insediamento. Dopo anni le autorità israeliane hanno «riconosciuto» che quei bambini hanno diritto all’istruzione ma non hanno preso provvedimenti verso i coloni.
Come accade in altri villaggi inclusi nella «Firing Zone 918», anche i 145 abitanti di Tuba usano costruire minuscole abitazioni all’interno di ampi tendoni da accampamento. È uno stratagemma per nascondere i piccoli edifici (un paio di stanze) alla vista dei militari ed evitare l’arrivo immediato delle ruspe. Qui il Gvc ha costruito cisterne per la raccolta di acque piovane e attraverso la copertura del costo per l’apertura di una strada sterrata, ha reso più agevole il trasporto dell’acqua con autobotti. Più di tutto ha contribuito con il suo intervento a far scendere il prezzo dell’acqua: per la gente di Tuba quattro volte più alto rispetto a quello che paga un palestinese che vive in città e molte volte di più di un colono israeliano che risiede illegalmente in Cisgiordania. A Tuba l’esercito vuole demolire i pannelli solari e le pale eoliche, l’unica fonte di energia per questa comunità.
Michele Pierpaoli, program manager del Gvc, lavora da tempo in questa zona (guarda il video in fondo all’articolo). «C’è un piano dell’amministrazione civile israeliana di evacuare queste aree con tutti gli abitanti, con la motivazione di renderle zone militari – ci spiega – È già successo in passato in altre parti della Palestina: le aree prima sono dichiarate zone militari e poi sono colonizzate dai settler israeliani». Adesso, prosegue Pierpaoli, «sono minacciati di distruzione i pannelli solari e le pale eoliche. E non si capisce perchè, forse rubano il vento?». Una domanda che potrebbe porsi anche Barack Obama, se solo venisse qui.
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