La prima vera Crociata di Obama a Gerusalemme è terminata. È durata poco più di 50 ore. Ha visto 5000 poliziotti a proteggere l’incolumità del capo di stato statunitense. Ha suscitato ilarità quando la limousine blindata è andata in panne per un pieno sbagliato, gasolio al posto della più cara benzina. Ha mostrato elicotteri a stelle e strisce sui cieli della città Santa. Tappeti rossi. Ricevimenti fastosi. Televisioni e fotografi ad immortalare strette di mano e scambio di doni.
Alcuni giornali avevano bollato la visita del Presidente Barack come un tour puramente simbolico e così è stato fino al primo pomeriggio di giovedì quando, Obama è salito sul palco del più grande teatro di Gerusalemme. Migliaia di giovani, studenti israeliani gremivano la platea e il loggiato. Ragazze e ragazzi, molti con la classica kippah in testa. Un pubblico di madre lingua ebraica ma che parla inglese con forte accento americano. Una minuta ed insignificante contestazione che Obama definisce parte del dibattito e su cui ironizza. Le parole, per quasi un’ora, del leader della prima potenza mondiale sono scandite lentamente. Il discorso è intenso. Diretto. È un elogio ad Israele, alla sua storia, al sionismo storico, all’indissolubile legame tra i due paesi.
È la retorica della middle class americana, democratica, fatta di citazioni bibliche, valori progressisti, spirito pionieristico, tanto da citare positivamente persino il modello del kibbutz. Questo almeno nella prima parte del discorso. Poi il ritorno alla realtà dei fatti: “è un periodo complicato per Israele”.
Difficoltà oggettive nel processo di pace. L’appello di Obama è politicamente (s)corretto: “Mettetevi nelle loro scarpe”. Riferendosi metaforicamente alle calzature dei palestinesi. Partono gli applausi, inaspettati. E Obama continua nella sua disamina: “ è un’ingiustizia quando le violenze nei confronti dei palestinesi non vengono punite”. Ovazione, qualcuno però storce il naso i nodi affrontati sono materia sensibile. L’analisi di Obama è ora articolata in difesa dei diritti dei palestinesi: “Hanno diritto alla giustizia.” “L’occupazione non è la risposta”. “Due stati per due popoli”.
È un tripudio tra la folla, impensabile. Nelle parole di Obama c’è propaganda e concretezza politica. Il messaggio del Presidente americano è un invito alle responsabilità delle nuove generazioni israeliane, alla loro energia e alle loro ambizioni. È una critica indiretta alla pochezza della classe politica attuale ed un inno alla speranza, se la palla è nelle mani dei giovani: “La pace è possibile”. É la frase che Obama ha ripetuto sin dal suo arrivo, sia di qua che di là dal muro. Nel teatro intanto sono tutti in piedi, affascinati. Il sogno di Obama coinvolge, obiettivo centrato.
È l’interiorizzazione di quello che noi chiamammo buonismo veltroniano e liquidammo, forse, con troppa celerità. Sono i diritti dei palestinesi e la sicurezza degli israeliani sullo stesso piano. È il futuro d’Israele ma anche il passato. È l’omaggio, simbolico, che il presidente ha reso alle tombe del padre del sionismo Theodor Herzl e del “coraggioso” Rabin. È un Obama con due pesi e due misure, istituzionale e informale, pacifista e interventista. Obama che incontra la bellissima miss Israele e Obama in preghiera con la kippah bianca nelle stanze del museo della Shoah.
Dove ossequia le vittime dell’olocausto: “Memoriale è un nome eterno”. Riafferma il ruolo primario delle istituzioni: “Combattere l’odio, il razzismo e l’antisemitismo”. Annuncia: “Grazie ad Israele un altro olocausto sarà impossibile.” Lancia minacce ad Hezbollah, alla Siria e all’Iran. È la dichiarazione che molti attendevano, la giustificazione ad un eventuale attacco preventivo all’Iran nuclearizzato. Lui però sottolinea che c’è ancora spazio alla trattativa diplomatica. È tanto forse troppo che bolle in pentola. Infine una tempesta di sabbia si abbatte su Gerusalemme. Raggiungere in elicottero Betlemme, meno di 10 km in linea d’aria, è impossibile. L’uomo più potente al mondo è costretto ad attraversare il muro di separazione in auto. Nel breve tragitto avrà avuto modo sicuramente di vedere dal finestrino le colonie che circondano la città culla del cristianesimo.
Avrà ascoltato un ultima supplica del presidente palestinese Abu Mazen. Non avrà però osservato i palloncini neri della pacifica protesta palestinese salire in cielo. La visita alla chiesa della Natività, l’ultima in programma prima di partire per la Giordania, dura pochissimo. Alla fine tutto come da programma per una crociata lampo in Terra Santa.
La campagna sul campo di Obama prosegue nella convinzione che il dialogo tra le parti possa continuare. Mentre nei lontani Usa il 66% degli americani, almeno stando al recente sondaggio della Cnn, è convinto che la pace tra israeliani e palestinesi è un progetto/sogno irrealizzabile. Il 49% degli intervistati si dice favorevole ad appoggiare un intervento d’Israele contro l’Iran e una paritaria percentuale si dichiara contraria ad un coinvolgimento militare. I sondaggi pesano e le crociate talvolta finiscono prima di cominciare.
*autore del libro “Israele 2013. Il falco sotto assedio”
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