L’incendio siriano divampa, anche se non si vede
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L’incendio siriano divampa, anche se non si vede

Si è spento l’incendio siriano? La risposta è no. Per molti motivi che, sommati, dovrebbero indurci a tenere la guardia alta. [Giulietto Chiesa]

L’incendio siriano divampa, anche se non si vede
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24 Settembre 2013 - 11.07


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di Giulietto Chiesa

Si è spento l’incendio siriano? La risposta è no. Per molti motivi che, sommati, dovrebbero indurci a tenere la guardia alta. Riassumiamo ciò che è accaduto in questo convulso mese di settembre, dopo il presunto bombardamento chimico della periferia di Damasco del 21 agosto. Scrivo “presunto”, non perché esso non c’è stato. Esso si è verificato, ma ci sono mille e 400 ragioni circa per dubitare delle sue dimensioni (tanti quanti sono i morti dichiarati dal governo USA e mai verificati da alcuno); della sua localizzazione (incredibilmente in un sobborgo di Damasco, a circa 15 minuti d’auto dal centro, secondo la testimonianza di Gian Micalessin, inviato a Damasco del Giornale); delle sue reali dimensioni;dei suoi autori.

Non intendo tornare su quest’ultimo aspetto del problema, se non per ricordare che in primavera la signora Carla Del Ponte, ex procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale, ben connessa con l’Amministrazione USA, rivelò pubblicamente, nella sua veste di operatore ONU, che qualcuno aveva fornito armi chimiche ai ribelli. Non venne detto chi aveva fornito quelle armi, né a chi fossero state date esattamente, vista la galassia di formazioni banditesche che compongono o coabitano all’interno del cosiddetto Free Sirian Army. Ma da quel momento furono evidenti e chiare due cose: che si stava preparando una grande “false flag operation” (operazione sotto falsa bandiera) che sarebbe stata utile per una improvvisa escalation della guerra. E che questa notizia era stata fatta trapelare da qualcuno – probabilmente da settori dell’Amministrazione americana – che intendeva ostacolare l’operazione.

L’altro aspetto che a me sembra chiaro è che – come bene ha scritto Robert Fisk – non è stato Bashar el-Assad a usare armi chimiche, poiché se avesse avuto queste intenzioni le avrebbe messe in atto contro uno dei centri occupati dai ribelli, a nord. E quando era in difficoltà militari, non quando era all’offensiva. Invece, molto stranamente, il bombardamento è stato fatto su Damasco. Cosa più incongruente di questa era impossibile immaginare. Come ricordò Micalessin, in diretta su Radio 24-Il sole 24 ore, citando un comandante militare governativo sul luogo, se il vento avesse improvvisamente cambiato direzione, la stessa capitale sarebbe stata gassata. Attribuire a Bashar un tale autolesionismo è acrobazia logica alla quale possono credere solo Giovanna Botteri e tutti i maggiori commentatori italiani, che – come al solito senza né verificare, né ragionare – si sono affrettati a sposare la tesi del “dittatore assassino”, colpevole senza alcun dubbio e riserva di avere gasificato i suoi sudditi. Un fantastico coro di servi, già tutti pronti ad applaudire il volo dei missili Tomahawk americani.

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Avevamo e abbiamo (ci sono numerosi documenti e testimonianze a confermarlo, naturalmente sul web e non nel mainstream) ogni buona ragione per condividere l’opinione che Vladimir Putin ha espresso lo scorso 19 settembre: «È stata una provocazione, certamente una provocazione malvagia e ingegnosa». La Russia ha sicuramente informazioni molto precise e addizionali: gli esecutori hanno fatto uso di una tecnologia “primitiva”, consistente – ha aggiunto Putin – di vecchie armi dei tempi sovietici che non sono più neppure in dotazione dell’esercito regolare siriano. Notizie analoghe erano emerse da giornali britannici fin dallo scorso gennaio e Megachip le aveva riprese nel pieno della polemica settembrina.

Putin reagiva duramente al rapporto, fintamente salomonico, degl’ispettori dell’ONU, affermando che la Russia aveva forti argomenti per ritenere che i responsabili dell’attacco chimico fossero i ribelli antigovernativi. E qui veniamo ai giorni nostri e ai prevedibili sviluppi. La mossa di Putin per fermare l’operazione militare è equivalsa, scacchisticamente parlando, a una mossa del cavallo: accusate Assad di usare armi chimiche? Bene, io l’ho convinto a consegnarle tutte. Dopo il no del parlamento bitannico, e il grido di Papa Francesco (“attenti che corriamo il rischio della terza guerra mondiale”) , questo ha costretto Obama a fermare la macchina.

Passando dagli scacchi al calcio, il punteggio del match Putin-Obama è stato 10 a 0. Ma era solo il primo tempo. E, ai bordi del campo americano non c’è solo il trainer Obama. C’è l’Iran e c’è, per esempio, Netanyhau. Il presidente Rohani vede la frenata di Washington e dichiara che l’Iran non intende fare la bomba atomica, che lui vorrebbe incontrare Obama, e manda gli auguri agli ebrei per una loro festa religiosa. Netanyhau replica che Rohani è un lupo travestito da agnello. Tutto piuttosto chiaro. Israele continua la propria guerra “sottotraccia”. Protetto, in questo, dal silenzio dei media occidentali. Bombardò la Siria nel gennaio di quest’anno, colpendo un convoglio che avrebbe trasportato missili SA-17 terra-aria di fabbricazione russa; bombardò di nuovo in maggio, per due giorni, colpendo rifornimenti militari in provenienza dall’Iran (missili terra-terra Fateh 110); bombardò ancora il 5 luglio colpendo un deposito di razzi a Latakia. Un comportamento, come si vede, molto pacifico e rispettoso delle regole internazionali. Se la Siria avesse fatto un centesimo di atti analoghi avreste sentito non solo le grida di tutti i giornali occidentali, ma il rombo dei bombardieri della NATO.

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Che succede ora? Che l’attacco aereo-missilistico americano-israeliano-inglese-francese-turco è rimandato a data da destinarsi, in attesa che si smorzino i dissensi in Europa, e che la voce di Papa Francesco sia dimenticata. Ma la guerra è in via d’intensificazione. Il ponte aereo che rifornisce i mercenari è in pieno rilancio. Riprende cioè la tattica precedente: mettere in ginocchio la società siriana, la sua economia, le sue possibilità di difesa. Si vuole provocare il collasso economico e sociale interno, con l’obiettivo di costringere Bashar alla fuga, o di far scoppiare un colpo di stato, o di ucciderlo.

Le cifre parlano di un vero e proprio tracollo economico di Damasco. In due anni di guerra alimentata dall’esterno (non è una guerra civile, ma una vera e propria aggressione) la disoccupazione è quintuplicata. In un paese di 20 milioni di abitanti i disoccupati sono oltre 2,5 milioni. Il resto lavora quando può. La sterlina siriana è crollata a un sesto del suo valore pre-guerra. Si calcola che le distruzioni di edifici pubblici, ospedali, infrastrutture superino i 15 miliardi di dollari. Il prodotto interno lordo del paese è circa un terzo di quello che era due anni fa: fabbriche distrutte a centinaia, un’agricoltura rasa a zero, i pozzi petroliferi fuori uso e molti in mano ai ribelli, le riserve di valute estere passate da 18 miliardi di dollari a 4 miliardi. Mancano medicinali quasi dovunque. Unici paesi che forzano il blocco dei rifornimenti sono la Cina, l’Iran e la Russia, ma i percorsi sono tutti sotto minaccia.

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In queste condizioni la sopravvivenza del regime è oltremodo precaria. È quasi miracoloso che Bashar Assad sia ancora vivo, se si tiene conto che gli jihadisti, insieme ai servizi segreti dei nemici esterni, mettono bombe perfino nella capitale e sicuramente hanno squadre di commando pronte a colpire al minimo varco lasciato aperto. È scontato che i suoi movimenti, le sue comunicazioni, la sua catena di comando, sono tutti sotto permanente controllo da parte dei satelliti americani. Se resiste è perché continua a mantenere non solo l’appoggio della minoranza alauita, ma perché ha ancora un vasto consenso popolare, sia dei cristiani delle varie confessioni, sia di una parte della maggioritaria popolazione sunnita. Ma chiunque capisce che, con il peggiorare delle condizioni di vita della gente, il consenso finirà per essere eroso.

E in questo contesto che avverrà la lunga e impossibile trattativa sugli arsenali chimici della Siria. Impossibile perché non li si potrà smantellare, né trasferire in breve tempo. Entrambe le cose si possono fare in pace, non in guerra. Si negozierà a lungo, senza risultati. Ma non ci sarà tregua.

Resta l’evidenza dei fatti: la strategia del logoramento “lento”, che era stata formulata in precedenza, è stata abbandonata da Obama all’inizio dell’estate. Qualcuno ha deciso l’accelerazione verso l’escalation. Perché?
Con ogni evidenza Washington, Riyadh, il Qatar, hanno fretta. Cosa li preoccupa e li stringe da vicino?

Forse un imminente aggravarsi della crisi finanziaria internazionale, che suggerisce di “bruciare i libri mastri” in un grande falò il più presto possibile?
Impossibile sapere con precisione. Salvo una cosa: Israele ha già tracciato la sua “linea rossa” nei confronti dell’Iran. Le aperture di Rohani non la sposteranno. Tutti gli altri seguono, compreso Obama.

Dunque, se le cose stanno così, e visto che ora non si può bombardare Damasco perché il mondo sarebbe contrario, allora aspettiamoci grandi novità sul piano militare, sul terreno dove Obama non vuole mettere piede. O, forse, da qualche altra parte, in Europa per esempio.

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