Dal giorno del golpe con cui Khomeini si impossessò della rivoluzione iraniana, il 4 novembre del 1979 (cioè il giorno della cattura del personale statunitense in servizio a Tehran -52 persone) l’Iran è diventato una stato teocratico, affidato alle cure della guida spirituale della rivoluzione, che si è auto attribuito gli stessi poteri del Mahdi, colui che per gli sciiti tornerà alla fine dei tempi, insieme a Gesù.
Uno dei punti fondanti di questo potere è stato sempre riassunto da uno slogan: “marg bar amrika”, cioè “morte agli Stati Uniti”. E’ una delle poche frasi che si possono leggere sui muri di Tehran anche in inglese, in modo che anche gli stranieri ne abbiano la piena consapevolezza.
Ora gli imbianchini degli ayatollah hanno sei mesi di tempo per pensare come sostituire i vecchi graffiti che indicano “la strada” dal 4 novembre di 34 anni fa.
Con Rohani il clero si è ripreso il potere politico dopo aver creato la nuova centrale del potere militar-economico-industriale, i pasdaran. Ahmadinejad, il primo presidente non religioso, ha servito la causa ma anche rappresentato una sfida, eccessiva. E gli ayatollah lo hanno disarcionato.
Ora gestiscono loro la grande virata, ma il braccio della penetrazione verso il Mediterraneo restano loro, i pasdaran. Che devono farlo senza la pretesa di gestirlo anche politicamente.
Ora Tehran, grazie agli errori americani, si trova nell’invidiabile posizione di aver preso il potere in Iraq, grazie all’invasione bushita del 2003, e in Siria, grazie all’insipienza di Bashar al- Assad. Sono uomini loro i nuovi signori del potere di Damasco, una sviluppo che ai tempi di Assad padre non era neanche concepibile.
Conclusa vittoriosamente la corsa verso le coste mediterranee, arrivando a congiungersi territorialmente con le milizie sciite libanesi di Hezbollah, gli ayatollah hanno deciso di giocare l’altra partita. E’ questo che si vede dietro l’accordo sul nucleare.
Tehran non ha solo la “via al Mediterraneo”, ma anche la “via al sud est asiatico”, quello che ha un bisogno disperato del greggio iraniano e che tanto interessa Washington. Chiusa una corsa, si può aprire l’altra, perché,messe insieme,una vittoria epocale e una prospettiva storica valgono un prezzo “nucleare”.
L’Iran ha coltivato l’obiettivo nucleare in una prospettiva imperiale, cioè soprattutto per riaffermarsi come impero nei confronti dei paesi vicini. La popolazione lo ha pagato a carissimo prezzo, tanto che oggi anche l’affermazione del regime che inorgoglisce il nazionalismo persiano dicendo “non abbiamo rinunciato al nostro diritto ad arricchire l’uranio” trova una fantastica reazione popolare: “ abbiamo anche altri diritti, quello a lavorare, a parlare, a mangiare”….
Per questo è molto interessante la posizione degli arabi che non seguono l’Arabia Saudita nel rifiuto dell’accordo, tesi insostenibile, ma della sua tempistica: “questo accordo dimostra che Tehran non può andare al di là del diritto internazionale”. Giustissimo: peccato che lo abbia potuto fare in Iraq, in Siria, e in casa sua, violando dal 4 novembre del 1979 i diritti umani degli iraniani.
Ora si aprono le porte dell’Eldorado iraniano: tutti già scaldano i motori, dal Pacifico all’Atlantico. La prospettiva persiana è globale. Gli europei non ne hanno alcuna, gli americani confidano nel fatto che i mercati futuri e comuni porteranno gli imbianchini degli ayatollah a cambiare i graffiti di Tehran. I russi e i cinesi sono già lì, con prospettive diverse ma intenti per ora comuni. E gli arabi? Restano il grande malato, ma se aspettano l’Europa faranno a tempo a morire. Meglio che scelgano di tornare alla Primavera, l’unico vento che può soffiare dal Levante verso Tehran. Portando nel libro dei brutti ricordi anche la famiglia reale saudita, non c’è dubbio. Ma tra il rimanere in campo perdendo tutto o gestendo la propria uscita di scena ma con la prospettiva di vincere forse sarebbe saggio seguire la seconda strada…