Metti una giornata di fine marzo a Roma, aria di primavera, il cortile soleggiato di San Damaso dentro il Vaticano, il picchetto delle guardia svizzere, alti prelati in rosso e dignitari, poi il lento incedere nei corridoi e nelle stanze del palazzo apostolico fino allo studio privato del papa. Un film perfetto per le telecamere americane, e con quali personaggi poi. Barack Obama e Francesco. Anche per il capo della prima potenza del mondo la visita ufficiale in Vaticano ha quel certo non so che di straordinario ed emozionante che non può provare in nessun altro Palazzo del mondo. Per Obama, inoltre, questa visita ha anche qualcosa di più di quella che fece a Benedetto XVI nel 2009.
Ad attenderlo nello studio questa volta c’è il papa venuto dalla “fine del mondo” che, appena eletto, il 13 marzo scorso, il presidente americano salutò con «un caloroso augurio», definendolo «un paladino dei più poveri e vulnerabili tra noi». «Come primo papa proveniente dalle Americhe», sottolineò allora Obama, la sua elezione «è un tributo alla forza e alla vitalità di una regione che sta sempre più modellando il mondo e, insieme a milioni di ispanici americani, negli Stati Uniti condividiamo la gioia per questo giorno storico». I cronisti studiano ogni minimo dettaglio dell’incontro, dalla stretta di mano a come si siedono, l’uno di fronte all’altro, la spoglia scrivania papale in mezzo, come di norma accade, con il Papa che “interroga” l’ospite? O uno vicino all’altro, in modo più informale? E basterà l’inglese di Bergoglio, così il faccia a faccia sarà più autentico e diretto, come piace a tutti e due? O ci saranno gli interpreti?
Si può ricamare fin da adesso sull’incontro per il quale non basteranno gli aggettivi, quello del prossimo 27 marzo. Un incontro senza precedenti, se non quello del primo dicembre 1989, tre settimane dopo il crollo del muro di Berlino, tra papa Giovanni Paolo II, ancora in forma gagliarda, e il leader sovietico Mikhail Gorbaciov, la prima volta che un leader del Pcus incontrava il pontefice. Certo, le circostanze odierne non sono incorniciate in un periodo tumultuoso come quello di venticinque anni fa, e tuttavia c’è qualcosa di altrettanto “storico” nel colloquio che avranno il capo della chiesa cattolica e il leader degli Stati Uniti.
Innanzitutto la forza carismatica delle personalità in campo. Come Giovanni Paolo II e come Gorbaciov, Francesco e Obama sono figure di fortissima discontinuità, con le loro biografie peculiari, le loro visioni controcorrente, il loro incarnare e rispecchiare una chiara e robusta domanda di cambiamento e di svolta che proviene dalle loro “basi”. Inoltre, se la forza della storia fece convergere, da posizioni molto diverse, due uomini dell’est per far crollare il Muro e por fine alla divisione in due del mondo, oggi sono due uomini entrambi “americani” che sembrano dettare il corso degli eventi contemporanei. L’America di Obama è altro rispetto a quella di Bush, e perfino rispetto a quella di Clinton, ed è un’America consapevole dei suoi limiti e desiderosa di ridisegnare la geografia mondiale; la chiesa del latino-americano Francesco è una chiesa che fa i conti con i suoi ritardi e i suoi errori, sta cambiando rapidamente passo per porsi in sintonia con il nuovo mondo.
Quando si vedranno, Obama e Papa Francesco, alcune delle questioni-chiave di questi giorni, e che li hanno avuti entrambi protagonisti, potrebbero o aver perso rilevanza o, al contrario, essersi aggravate e complicate. La questione siriana, in particolare, e, legato ad essa, il complicato puzzle mediorientale, con al centro la questione iraniana e quella israelo-palestinese. Su questo terreno, dopo la quasi guerra americana contro il regime di Damasco, clamorosamente stoppata grazie anche all’intervento di Francesco, c’è sintonia tra Santa Sede e Casa bianca. L’ha accertato solo qualche giorno fa, il 14 gennaio, il segretario di stato John Kerry nel corso dei suoi colloqui a Roma con il segretario di stato vaticano Piero Parolin. In quell’occasione Kerry aveva detto che «il presidente Obama non vede l’ora di venire a Roma per incontrare il papa in Vaticano» poiché «c’è l’interesse comune di lottare assieme contro la povertà estrema su base globale».
Infatti, al centro dell’incontro del 27 marzo, ci sarà soprattutto il tema delle nuove e vecchie povertà, sul quale il presidente nordamericano e il papa sudamericano parlano la stessa lingua. Obama ha citato più volte il pontefice nei suoi oramai frequenti discorsi sulle crescenti diseguaglianze in America. In un’intervista alla MsNbc ha detto che il papa. «sembra davvero una persona che ha fatto suoi gli insegnamenti di Cristo» e quel che più colpisce il presidente è «l’incredibile umiltà», «l’incredibile senso di empatia» che Francesco riesce a trasmettere, «soprattutto verso i più poveri e i più deboli». «È una persona che ha un atteggiamento informale, che abbraccia le persone invece di tenerle a distanza», dice ancora Obama, è «una persona che cerca di trovare sempre qualcosa di buono in tutti invece di condannare. E per questo io lo ammiro».
Non sappiamo se Francesco ricambi tanta stima e ammirazione. Certo è che, nelle circostanze attuali, l’incontro di fine marzo sarà importante soprattutto per il presidente statunitense. Non solo perché oggi avere il papa dalla propria parte nella battaglia per il riequilibrio delle diseguaglianze è per Obama una bella carta da giocare nella partita politica in corso in America. Ma è anche importante il sostegno del papa, per Obama, sul terreno delicato della riforma sanitaria, dove le istituzioni cattoliche stanno remando contro perché estremamente contrariate in particolare dalle misure della health reform che prevedono il rimborso degli anticoncezionali anche per le dipendenti delle loro organizzazioni e istituzioni, pena multe elevatissime. Frizioni anche a proposito della libertà d’interruzione della gravidanza e sulle nozze gay, che Obama sostiene. Le gerarchie cattoliche non vogliono cedere. Kerry, nel suo incontro con Parolin, ha parlato anche di questo.
Il Papa sta mettendo mano in profondità anche nell’episcopato americano, inserendo nelle posizioni chiave vescovi e cardinali in sintonia con il suo modo di pensare. L’ala conservatrice, che non ha mai nascosto la sua ostilità nei confronti di Obama e che faceva apertamente il tifo per il mormone Romney pur di mandare a casa il presidente africano-americano, è oggi in ritirata. Ma con sé si porta dietro una parte cospicua dei ricchi benefattori della chiesa, che non sopportano il pauperismo di Francesco e la sua predicazione per i poveri. I cambiamenti in corso, voluti da papa Bergoglio, e le reazioni nervose dei conservatori, che parlano di un tandem Obama-Francesco, fanno effettivamente pensare che ci sia del vero in questo feeling. Lo vedremo da quanto e da che cosa riporterà a casa Obama dall’incontro del 27 marzo.