Dietro i profughi scenari di guerra
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Dietro i profughi scenari di guerra

Siria, Iraq e Palestina, ne parlano i protagonisti. Da questi paesi arrivano i profughi che sbarcano sulle coste italiane.

Dietro i profughi scenari di guerra
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12 Novembre 2014 - 09.22


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È finita l’era dell’immigrazione per cause economiche, la crisi nei paesi occidentali ha anzi provocato una nuova emigrazione. Coloro che sbarcano sulle nostre coste, sono salvati dalle navi di Mare nostrum o purtroppo finiscono negli abissi del Mediterraneo sono profughi provenienti da paesi in guerra. Sono persone, donne, uomini e bambini che non hanno deciso di lasciare il proprio paese, sono stati costretti a farlo: rischiano la vita per evitare una morte sicura.

La maggior parte sono siriani, palestinesi, iracheni, che si aggiungono a coloro che fuggono da dittature come gli eritrei, la maggior parte delle 368 vittime del naufragio del 3 otto-bre 2013.

Come affrontare alla radice il problema dei profughi?

«Fermare la guerra», o almeno fare il possibile per farlo. Ne abbiamo parlato con Samir Aita del Forum democratico siriano, la scrittrice irachena Haifa Zangana e il consigliere dell’Olp Jamal Zakout.

Difficile scegliere quale tra le tre situazioni sia la più drammatica, in tutti i casi la soluzione appare estremamente difficile, ma non impossibile.

Siria

«Per fermare la guerra in Siria occorre fare i conti con i combattenti non con i politici. Solo chi fa la guerra può decidere una tregua. Certo non è facile: da una parte ci sono le organizzazioni dell’opposizione come il fronte al Nursa e l’Isil, dall’altra non c’è più l’esercito siriano ma molte milizie che non rispondono ad Assad ma all’Iran piuttosto che a Hezbollah. Esiste poi una difficoltà politico-psicologica: gli oppositori non si rendono conto che non si tratta più della rivoluzione, come Assad non può dire che combatte contro i complottisti e non contro i siriani, ora in Siria c’è la guerra», sostiene Samir Aita.

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L’analisi di Aita si scontra con la difficoltà a indurre i jihadisti a trattare. Che cosa potrebbe costringerli a farlo? Secondo Aita ora i jihadisti si trovano in difficoltà perché vengono colpiti (sia l’Isil che il fronte al Nusra) dai bombardamenti ma, soprattutto questi ultimi non possono dire di essere contro l’intervento Usa perché era la carta che aveva giocato l’opposizione. E Assad? «Gli Usa di fatto si coordinano con Assad, entrambi bombardano ma in orari diversi».

Se si riuscisse a imporre una tregua si potrebbe passare a una trattativa politica, anche in questo caso i protagonisti sono molti: «prima di tutto bisogna insistere su quelli che hanno pagato la guerra – Arabia saudita, Qatar, Francia, etc. – e poi trovare i soldi per la pace di tutti, compresi Russia e Iran». Comunque «finché ci sarà la guerra ci sarà Assad ma non sarà lui a governare la pace», conclude l’intellettuale siriano, costretto a vivere in Francia.

Iraq

Uno dei problemi che rendono difficile la sensibilizzazione sulla realtà di Siria e Iraq è la mancanza di informazione e a dominare la scena mediatica sono i video con gli sgozzamenti dell’Isil.

«In Iraq non c’è solo l’Isil, ci sono anche forze democratiche che combattono contro lo Stato islamico e le milizie di al Sistani che commettono crimini che restano impuniti (alla fine di giugno il leader religioso sciita aveva emesso una fatwa in cui invitava gli sciiti al jihad, la guerra santa contro l’Isil)», sostiene Haifa Zangana.

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Eppure l’Isil è il maggiore problema…

«È solo l’ultima ‘buona ragione’ scelta dagli Usa per bombardare l’Iraq, come erano state le armi di distruzione di massa, etc. Nei bombardamenti come si possono differenziare i combattenti dell’Isil tra il popolo, perché hanno la barba come molti altri iracheni o perché sono vestiti di nero? L’esercito iracheno due settimane fa a Tikrit ha bombardato una scuola uccidendo molti bambini, ma nessuno ne ha parlato», dice la scrittrice che dai tempi di Saddam vive a Londra. Nata a Kirkuk, si definisce mezza araba, mezza kurda, ma soprattutto irachena.

I peshmerga sono i più validi oppositori all’Isil.

«I peshmerga non sono più quelli di una volta, ora li stanno addestrando i tedeschi, tutte le forze dell’ordine irachene, oltre un milione, non avevano più una preparazione militare». La soluzione? «Uno stato unito, sovrano politicamente ed economicamente, noi vogliamo controllare il nostro petrolio. Solo uno stato unito può garantire anche i kurdi, il Kurdistan (iracheno) non è un’isola».

Prima occorre fermare la guerra. «Solo la solidarietà internazionale può fermare la guerra, la gente si deve mobilitare non per l’Iraq, la pace non si fa per gli iracheni, dobbiamo lottare per tutti noi, insieme», sostiene Haifa Zangana che ricorda, come tutti noi, le grandi manifestazioni del 2003 che però non sono riuscite a impedire la guerra. Ma ha ragione Zangana: è ora che il mondo pacifista torni a farsi sentire.

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Palestina

Per fermare la guerra in Palestina «occorre porre fine all’occupazione israeliana», la convinzione di Jamal Zakout, che aggiunge «e permettere ai palestinesi di godere della libertà, dignità e del diritto di autodeterminazione».
Zakout ripercorre tutte le violazioni commesse da Israele (insediamenti, aggressioni militari, etc.) che hanno impedito l’applicazione degli accordi di Oslo. Accordi che avevano dei limiti, innanzitutto perché fatti per un periodo di transizione di pochi anni e che invece ancora dura. «È come se un ragazzo di 21 anni fosse costretto a vestire gli abiti di un bambino di tre anni, mi dice mio figlio che è nato proprio nell’anno degli accordi» sostiene Zakout.

Tra i limiti degli accordi di Oslo, dice il consigliere dell’Olp, vi è il fatto che non era riconosciuto il diritto dei palestinesi ad avere uno stato e la fine dell’occupazione israeliana, mentre l’Olp doveva riconoscere il diritto di Israele a esistere in pace e sicurezza. Paradossalmente Israele, che non ha rispettato gli accordi, attacca i palestinesi in nome della garanzia alla propria sicurezza.

Zakout rivendica per i palestinesi la fine dei condizionamenti esterni alla politica interna palestinese. «Bisogna porre fine alla polarizzazione tra le forze politiche perché entrambe (Hamas e Olp) hanno fallito nel rappresentare le aspirazioni dei giovani nati dopo Oslo», secondo Zakout è necessario un governo che comprenda tutte le forze politiche palestinesi, una sorta di unità nazionale. Ma a impedire l’unità dei palestinesi sono le forze esterne.

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