Una data che potrebbe diventare doppiamente storica è quella del 28 febbraio, che in effetti già ricorda tristemente in Turchia il colpo di stato “post-moderno” (in quanto non cruento) del 1997, quando l’esercito provocò la caduta del governo guidato dal premier Necmettin Erbakan e impose norme fortemente repressive contro il movimento conservatore di estrazione islamica “Refah Partisi” (Partito del Benessere).
Il 28 febbraio del 2015 verrà invece ricordato per il messaggio col quale Abdullah Öcalan – leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), in prigione dal 1997 – ha proposto un congresso in primavera in cui deliberare la fine della lotta armata contro lo Stato turco. Lanciata nel 1984, la campagna ha provocato 40.000 morti e distruzioni devastanti nel sud-est del Paese.
Un messaggio concordato col governo, che comunque rappresenta solo un momento di passaggio, seppur fondamentale. Da una parte, è il culmine di un processo di avvicinamento fortemente voluto dall’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), in cui il presidente Recep Tayyip Erdogan ha investito una bella fetta della propria credibilità politica, andando anche contro le posizioni radicate della propria base nazionalista. Dall’altra, è solo l’inizio di un negoziato vero e proprio, lungo e difficile che dovrà portare sia al disarmo dei miliziani del PKK, sia a nuova Costituzione democratica in cui vengano riconosciuti i diritti fondamentali di tutti i cittadini turchi (senza più discriminazioni su base etnica o religiosa) e forme avanzate di autonomia territoriale.
Non si tratta, insomma, di un espediente in vista delle elezioni politiche del 7 giugno, anche se l’annuncio di una pace vicina è ovviamente garanzia di voti supplementari. Gli obiettivi sono chiaramente di lungo periodo: perché la pacificazione e lo sviluppo economico del sud-est – oggi poverissimo e tagliato fuori dalla modernità – garantiscono un destino sempre più democratico, performance economiche in crescita dalle quali dipenderanno i successi elettorali del decennio a venire, la possibilità di presentarsi come modello di convivenza interetnica per tutta la regione. Quella che il premier e già ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, vorrebbe trasformare – attraverso l’esempio della Turchia e la creazione di una vasta area di libero scambio di cooperazione politica – in un “cintura di prosperità e di pace”.
Fonte. Giuseppe Mancini, Lookout