da Nairobi
Francesca MarrettaVia i profughi somali da Dadaab entro tre mesi. Se ne occupi l’Onu, oppure facciamo da soli.
Questo, in sintesi, l’annuncio arrivato sabato da parte del vice-presidente del Kenya William Ruto, che ha aggiunto: “Dopo Garissa il Kenya cambierà com’è cambiata l’America in seguito all’11 settembre”. L’attentato di Garissa, in cui il 2 aprile sono stati trucidati, senza resistenza, 148 studenti universitari, è il colpo più recente messo a segno da al-Shebaab in Kenya.
La cacciata dei profughi di Dadaab fa parte di una serie di misure anti-terrorismo dell’ultima ora sviluppata in risposta a questa strage. Le oltre trecentomila persone cui il governo guidato da Uhuru Kenyatta chiede di “levare le tende” di fretta e furia per tornare oltreconfine (secondo alcune stime la cifra reale arriva a mezzo milione di profughi), sono fuggite dalla Somalia in tempi di guerra, fame o carestia.
A Ruto, come al Presidente Uhuru Kenyatta, sfugge probabilmente quale sia stato, sul lungo periodo, il risultato fallimentare della “War on Terror” lanciato dall’Amministrazione Bush dopo l’attacco alle torri gemelle.
L’inefficacia della “War on Terror”. Secondo diverse analisi nei tredici anni seguiti alle stragi dell’11 settembre gli Stati Uniti hanno speso oltre due trilioni di dollari per le guerre in Iraq e Aafghanistan. Operazioni considerate fallimentari sul lungo periodo. I contraccolpi della destabilizzazione irachena si avvertono fino all’Equatore, ma il governo del Kenya non fa due più due. Nel 2012 al-Shebaab ha dichiarato fede ad al-Qaeda, la cui apparizione in Iraq e il rafforzamento nella penisola Arabica sono in parte conseguenza del confronto frontale tra sciiti e sunniti, conseguenza, per larga parte, della “stabilizzazione” Usa. L’Afghanistan di oggi, in cui Talebani e Signori della guerra non sono scomparsi, è un altro esempio di efficacia della “War on Terror”. L’Isis minaccia considerata oggi maggiore di al-Qaeda, è secondo molte analisi conseguenza diretta della destabilizzazione irachena, prima che di quella siriana.
Ma torniamo al Kenya. La strategia del governo in risposta agli attentati al Shebaab passa per lo sgombero di Dadaab e la stretta sulle moschee. Ma analisti e stampa parlano in un nuovo corso dell’estremismo di stampo Jihadista che recluta giovani benestanti che sono andati all’Università.
La radicalizzazione dei giovani di classe media. Il Comandante della polizia di Mombaso Robert Kitur ha dichiarato nei giorni scorsi che i gruppi terroristici operativi in Kenya ricercano oggi giovani appartenenti alla classe media. La vicenda delle studentesse britanniche brave a scuola reclutate on-line per diventare mogli di miliziani Isis mostra che questa tendenza è globale. Al-Shebaab continua allo stesso tempo a reclutare in zone povere. Quaranta famiglie della contea di Isiolo hanno denunciato la scomparsa di ragazzi, quasi certamente finiti tra le fila di al-Shebaab. Mentre la scelta di giovani senza lavoro e prospettiva può trovare spiegazioni di sorta, resta da capire cosa spinga ragazzi con la prospettiva una carriera e di un futuro a uccidere coetanei in quanto “infedeli”. In questa categoria non rientrano solo i cristiani, apertamente presi di mira da al-Shebaab in Kenya, in modo da fomentare discriminazioni utili ad attirare ulteriori consensi. Le vittime di al-Shebaab in Somalia sono i musulmani.
Un muro per fare ombra ai fallimenti. Invece che cementare forze di sicurezza che fanno acqua da tutte le parti, un’altra misura annunciata dal governo del Kenya per contrastare il terrorismo è la costruzione di un muro lungo il confine con la Somalia. Concentrare l’attenzione sul muro o i profughi di Dadaab crea distrazione da titoli di stampa che per tutta la scorsa settimana hanno puntato il dito contro l’inadeguatezza mostrata da governo e le forze di sicurezza in due anni di amministrazione Jubilee. Gli studenti di umili origini dell’Università Garissa sono stati un bersaglio facile, troppo facile per al-Shebaab. Ingenui, in tanti sono finiti in pasto ai carnefici uscendo dai nascondigli, facendosi avanti. “Non uccidiamo le donne”, hanno detto i terroristi infiltratisi tra i dormitori universitari. Una frottola grande quanto una casa a cui hanno creduto le tante ragazze sfigurate dai proiettili, andate in contro alla morte, pensando di avere una chance per sopravvivere. Se la risposta delle forze dell’ordine non avesse impiegato ore e ore ad arrivare, non ci sarebbe stato un tale numero di vittime. E non mancavano le avvisaglie.
Avvertimenti di intelligence ignorati. Secondo il quotidiano The Standard in edicola oggi (domenica 12 aprile), l’intelligence iraniana aveva condiviso informazioni su un imminente attacco contro cristiani a Garissa da parte di al-Shebaab almeno una settimana prima dell’eccidio. A ridosso delle vacanze di Pasqua Londra aveva reiterato l’avviso ai cittadini britannici di astenersi da viaggi non essenziali in Kenya. La allerta terrorismo era scattata nel paese. La Garissa ha dimostrato che i campanelli d’allarme non servono. Ecco perché questo ennesimo attentato firmato da al-Shebaab è una spina nel fianco per Kenyatta, che questo mese di aprile ha celebrato due anni di presidenza. A metà dell’opera, l’attuale Amministrazione non ha portato a casa i risultati promessi nella lotta al terrorismo.
La campagna militare in Somalia. Il Kenya ha dichiarato guerra alle milizie somale al-Shebaab fin dal 2011, schierando soldati oltreconfine in reazione ai rapimenti di turisti in Kenya. Successivamente le truppe di Nairobi hanno operato in Somalia sotto l’egida dell’Unione Africana, entrando a far parte dei caschi Verdi della coalizione Amisom. Risultati positivi in Somalia sono stati raggiunti. Un governo riesce oggi a operare in Somalia grazie all’impegno dell’Amisom. La capitale Mogadiscio è stata sottratta al controllo di al-Shebaab. Il porto di Kisimayo è stato liberato, tagliando una fondamentale via di approvvigionamento per al-Shebaab. Tuttavia l’instabilità persiste. Al Shebaab controlla ancora parte del territorio somalo e continua a compiere attentati in Somalia e Kenya.
Diversi leader di al-Shebaab sono stati uccisi in Somalia con attacchi mirati di drone americani, come quello che ha centrato a settembre 2004 Ahmed Abdi Godane, co-fondatore della formazione jihadista.I paesi che fanno o hanno fatto parte della coalizione Amisom non hanno però pagato il prezzo pagato dal Kenya in termini di attentati e morti.
L’Etiopia, che nel 2006 invase il territorio somalo contribuendo a porre fine al governo delle Corti Islamiche, condivide, come il Kenya, una lunga linea di confine con la Somalia. Sia in Etiopia sia in Kenya le popolazioni delle zone di confine sono di origine somala. Perché in Etiopia non si è registrata una scia di attentati come in Kenya? Anche Gibuti fa attualmente parte della coalizione Amisom. Il paese faceva un tempo parte della Somalia, dunque i cittadini sono somali, eppure si è registrato un solo attacco terroristico un anno fa in nome di al-Shebaab. La strage di Garissa, come lo spettacolare attacco al Westagate, Mpeketoni e altri attentati compiuti da al-Shebaan in Kenya hanno mostrato l’incapacità di prevenzione e reazione delle forze di sicurezza del Kenya.
Accuse di corruzione. Le prime pagine dei giornali di ieri (sabato) riportavano dell’imminente rafforzamento delle forze di polizia con l’annuncio dell’assunzione di circa 10mila nuove leve entro il 20 aprile. La notizia parrebbe positiva. Il problema è che lo scorso luglio un’infornata di nuove reclute nella polizia era stata bloccata dall’Alta corte del Kenya per accertate irregolarità nelle selezioni. Data l’attuale situazione di emergenza, il presidente Kenyatta ha dichiarato di volersi assumersi la responsabilità del reclutamento di nuovi agenti, facendo appello contro la decisione dell’Alta Corte. Un pronunciamento è atteso per l’8 maggio. In Kenya stampa e analisti denunciano corruzione nei sistemi di sicurezza, come in altri apparati dello Stato su base quotidiana.
L’ultima vittima di al-Shebaab. In attesa di risposte che che vadano oltre dichiarazioni di guerra ai profughi somali, al-Shebaab miete vittime in Kenya anche senza alzare un dito. Lo scoppio di un trasformatore elettrico alle quattro di stamattina (domenica) ha scatenato il panico nel campus Kikuyu dell’Università di Nairobi. Uno studente che frequentava il terzo anno è morto nella calca scatenatasi per il panico ed altri 141 sono finiti all’ospedale feriti. Alcuni studenti sono lanciati dalle finestre. Anche dal sesto piano. Pensavano che l’esplosione fosse dovuta a un nuovo attentato di al-Shebaab.