Andrea Parisi, in Pakistan con Lo Porto: una morte inaccettabile
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Andrea Parisi, in Pakistan con Lo Porto: una morte inaccettabile

Era a Multan il giorno del rapimento dei colleghi della ong Welthungerhilfe. Oggi Parisi è a Kiev: il basso profilo, il silenzio, non sono serviti a nulla.

Andrea Parisi, in Pakistan con Lo Porto: una morte inaccettabile
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26 Aprile 2015 - 11.31


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“Ero tranquillo, in prima classe su un treno da Donbass a Kiev. Mi arriva un messaggio di una collega, amica mia e di Giovanni, che dice: ‘Hai saputo di Giovanni?’. Ho pensato immediatamente che fosse stato liberato. Avrei voluto alzarmi, mettermi a saltare, abbracciare tutti i miei compagni di viaggio. Poi, un altro messaggio: Giovanni era morto”: a parlare è Andrea Parisi, cooperante triestino, a Multan il giorno in cui Giovanni Lo Porto e Bernd Muehlenbeck furono rapiti. 45 anni, con Giovanni era amico dal 2010. Andrea oggi è in Ucraina, al lavoro con l’Unhcr, con cui già lavorò in Libano: oggi, aiuta le persone in fuga dal Donbass, una delle zone più calde del conflitto ucraino. “Sono nauseato. Il governo italiano ha pensato prima a confortare il presidente Usa che a stringersi vicino alla famiglia di Giovanni. Sono arrabbiato: è noto come i droni siano molto pericolosi. Già da tempo il Pakistan aveva interrotto i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti dopo l’ennesima strage di civili dovuta a un drone. Ora sentiamo ripetere che Giovanni è morto per colpa dei terroristi: vero, ma non sono di certo gli unici colpevoli”.

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Ieri, il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha riferito in Parlamento sulle circostanze che avrebbero portato alla morte del cooperante palermitano: 35 i deputati presenti su circa 630. “Questo episodio mi disturba: un colpo in più inferto alla famiglia. La forma, in politica, è fondamentale: l’Aula doveva essere piena, invece era semi-deserta. È tutto sbagliato, tutto”. Forse, ripete Parisi, se si fosse fatto di più oggi saremmo qui a raccontare un’altra storia: la consegna del silenzio, richiesta e ribadita dalla Farnesina, è sempre stata seguita puntualmente. “Ognuno ha fatto la sua parte: certo, davanti allo stallo, come amici di Giovanni, è capitato decidessimo di alzare la voce, quando cominciammo a pensare che la scelta del bassissimo profilo altro non fosse che un vicolo cieco”. Anche Andrea, come già raccontato a Redattore Sociale anche da Margherita Romanelli della ong bolognese Gvc, amica ed ex collega di Giovanni, dopo la liberazione di Berndt Muehlenbeck l’impressione comune è che anche la liberazione del giovane italiano fosse vicina, come se, magari solo in parte, le due vite fossero parte della medesima trattativa.

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Parisi racconta di non essere particolarmente turbato dal ritardo con cui il presidente Obama ha parlato dal raid: “In fondo – spiega –, non si tratta che dell’ennesima dimostrazione di sudditanza nei confronti dell’America: l’Italia, nello scacchiere mondiale, conta molto meno rispetto al passato”. A dare particolare fastidio, è la coscienza che Giovanni non fosse molto distante da dove lo si era creduto in tutti questi anni: nelle zone di conflitto, in balia delle tribù, sul confine tra Pakistan e Afghanistan.

“Solo pochi giorni fa ho letto che la liberazione di Giovanni era vicina. Oggi, con il senno di poi, mi auguro che quelle non fossero altro che parole al vento. Sarebbe l’ennesima beffa. A questo punto, mi auguro che lo Stato italiano, con uno scatto d’orgoglio, si rimbocchi le maniche per riportare a casa Padre Dall’Oglio e Ignazio Scaravilli. Certo, se così fosse, non potrei smettere di pensare che, davvero, si sarebbe potuto salvare Giovanni molto tempo fa”. (Ambra Notari)

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