«È solo una sospensione del provvedimento, non è il caso di festeggiare perchè l’apartheid nei trasporti tra coloni (israeliani) e palestinesi è già in atto, è attuato in silenzio». Sergio Iahni, giornalista e storico attivista della sinistra israeliana, mette in guardia dalla tentazione di gridare alla vittoria dopo la decisione presa ieri dal premier Netanyahu di sospendere gli autobus segregati approvati dal ministro della difesa Moshe Yaalon – «in via sperimentale per tre mesi» – per i manovali palestinesi che si spostano dalla Cisgiordania verso Israele. La disposizione data da Yaalon peraltro avrebbe costretto i lavoratori a tornare a casa attraversando gli stessi posti di blocco militari dai quali erano passati all’andata, con il risultato di metterci un paio di ore in più per rientrare in Cisgiordania. Un giornata di lavoro ben diversa da quella dei coloni, gli occupanti, che si muovono senza alcuna restrizione e che da anni chiedono autobus solo per loro, «senza arabi».
«Abbiamo ascoltato le proteste dell’opposizione, anche il presidente Rivlin ha criticato il governo, ma gli autobus dell’apartheid già esistono e da lungo tempo – ci spiega Iahni – la compagnia di trasporti Kadim gestisce linee tra la Cisgiordania e Tel Aviv solo per i manovali palestinesi che vanno in Israele, allo scopo di limitare il più possibile la loro presenza sugli autobus ordinari che usano i coloni». In ogni caso, conclude il giornalista, «Yaalon ha comunicato che continuerà a studiare la materia, si tratta solo di un rinvio e non di una rinuncia definitiva al provvedimento».
I coloni non nascondono la loro delusione per la retromarcia del primo ministro. E si affidano alla coerenza di Yaalon, uno dei superfalchi del Likud, per l’attuazione della “misura di sicurezza”, così la definiscono, volta a «controllare meglio gli arabi». Controlli che non fanno eccezioni, neanche per gli sportivi palestinesi, nonostante i «segnali positivi» che il presidente della Fifa Joseph Blatter dice di aver registrato nell’incontro di due giorni fa con Netanyahu, durante la sua missione volta a «trovare un compromesso», ossia a convincere i palestinesi a rinunciare alla richiesta di sospensione di Israele dalla Fifa in risposta alle pesanti restrizioni (e non solo) che l’esercito israeliano impone ai calciatori palestinesi di Cisgiordania e Gaza.
«Israele – ha detto Blatter ieri a Ramallah – ha acconsentito verbalmente alla creazione di un gruppo di lavoro misto di israeliani, palestinesi e della Fifa; ad incontri mensili dei rappresentanti delle due Federcalcio; alla dislocazione di personale speciale ai check point per facilitare il passaggio di atleti palestinesi; e alla creazione di carte di identità speciali». Il capo della Federazione Calcio della Palestina, Jibril Rajoub, si è detto non convinto della proposta verbale israeliana ed è intenzionato a lasciare in agenda il voto all’assemblea della Fifa il prossimo 29 marzo a Zurigo, se non arriveranno assicurazioni israeliane nero su bianco. È improbabile però che la Federazione palestinese ottenga dai membri della Fifa i due terzi dei voti necessari per la sospensione di Israele.
Ai margini di questo quadro che non lascia intravedere alcun spiraglio, riecheggiano le sterili dichiarazioni della “ministra” degli esteri dell’Ue Federica Morgantini che, ieri a Ramallah e Gerusalemne, ha detto che «verificherà se ci sono margini per far ripartire il processo di pace».