Sono mesi intensi per la diaspora eritrea, in crescita vertiginosa (si parla di 4-5mila fughe al mese dal paese) e sempre più attiva a livello sociale e politico. Dal 3 ottobre 2013, con la strage nelle acque di Lampedusa che costò la vita a 360 eritrei (e 8 somali), si è iniziata a diradare la nebbia di timore e silenzio che avvolgeva gli abitanti del paese africano, in patria come all’estero. Costretti a viaggi devastanti, venduti da trafficanti di organi, scomparsi nel Mediterraneo o nel Sahara e spesso spiati anche al di fuori del paese, gli eritrei hanno iniziato, con fatica, a parlare. Da un anno a questa parte, a catalizzare l’attenzione, è una commissione d’inchiesta nominata dalle Nazioni Unite nel giugno 2014 per indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse nel paese. Un lavoro esteso, presentato per la prima volta al Consiglio per i Diritti Umani lo scorso 26 giugno con un insolito sostegno popolare, quello di centinaia di eritrei giunti a Ginevra da tutta Europa in supporto al lavoro degli esperti ONU. La scena si è ripetuta giovedì 29 oltreoceano, a New York, con oltre 2.000 persone accorse da Usa e Canada per salutare la consegna del rapporto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Per Mike Smith, presidente della Commissione, gli abusi subiti dagli eritrei richiedono una risposta chiara, a cui l’Unione Europea non può sottrarsi.
Abusi sistematici e diffusi. Docente universitario e diplomatico australiano di lungo corso, Smith non si aspettava forse che un lavoro lungo e complesso, culminato in un dossier di 440 pagine, fosse acclamato da cortei di manifestanti. Eppure la convergenza è evidente e non a caso gli uni e gli altri – gli eritrei fuggiti dal paese e i tre commissari guidati da Smith – si erano già incontrati lontano dagli sguardi pubblici, dando vita a un documento che, mancando qualsiasi collaborazione del governo eritreo, ha attinto alle testimonianze degli Eritrei fuggiti al regime di Isaias Afewerki e incontrati in Etiopia, Italia, Svizzera e Stati Uniti. Le conclusioni parlavano di “violazioni sistematiche e diffuse dei diritti umani, perpetuate dal governo, dalle forze di polizia, dall’esercito e dal partito di Afewerki, il PFDJ”, realtà distinte ma di fatto controllate direttamente dal presidente e da una ristretta cerchia di fedeli.
Crimini contro l’umanità. 550 testimoni hanno contribuito a dipingere un quadro drammatico, fatto di detenzioni arbitrarie, tortura, sparizioni, violenze sessuali e assenza di qualsiasi libertà politica, economica e sociale. Fra i motivi della fuga dal paese, il servizio militare a tempo indeterminato, che obbliga ogni adolescente a subire vessazioni, sopravvivendo per anni in condizioni proibitive. “Questi abusi”, ha spiegato Smith, “sono evidenti e adesso, con l’estensione di un altro anno del mandato della Commissione, abbiamo un altro compito: capire se si possono configurare come crimini contro l’umanità, confermandone cioè l’estensione e l’intenzionalità nell’attaccare la dignità umana”. Non più quindi interviste mirate alle vittime, ma ricerca e incontri con persone che conoscano da vicino la catena di comando del regime, i rapporti fra organismi di potere e il territorio del paese.
Il governo eritreo? Non pervenuto. Oltre alla presentazione ufficiale del rapporto di fronte all’Assemblea Generale, nei giorni scorsi la Commissione si è riunita per la prima volta da giugno, “per programmare i prossimi sei mesi di lavoro”. Uno sforzo che, come in passato, non sembra apprezzato dal governo di Asmara, che non ha autorizzato la visita dei commissari e che, anche ieri, spiega Smith, “durante il cosiddetto dialogo interattivo, dopo il mio intervento, ha ribadito tramite l’ambasciatore di non aver intenzione di collaborare con la commissione d’inchiesta, che ritiene motivata da un’avversità politica al governo”. Una mancanza di disponibilità che si fa aggressiva, manifestandosi, continua il commissario, anche “in azioni concrete, come le intimidazioni verso potenziali testimoni, che noi facciamo di tutto per proteggere, in modo che possano parlare senza temere ritorsioni, soprattutto contro i famigliari rimasti in patria”.
Attenzione al processo di Khartoum. Fra le conclusioni del rapporto, anche una serie di raccomandazioni rivolte alla protezione di chi fugge dall’Eritrea, al contrasto al traffico di persone e alla necessità, da parte di eventuali partner internazionali, di mettere al primo posto la tutela dei diritti umani. Un richiamo forte arriva all’Europa che, ricorda Smith, “con il processo di Khartoum, di cui si occuperà il vertice di Malta nelle prossime settimane, cerca di stabilire degli accordi con vari paesi di provenienza dei rifugiati, fra cui l’Eritrea, per cui si prevedono anche dei fondi ad hoc, con l’idea di arrestare il flusso di persone”. Se su questo la commissione non può sbilanciarsi, per Smith “va detta una cosa: qualsiasi relazione si intraprenda con il governo eritreo, deve partire dal rispetto dei diritti umani, se no è destinata a fallire, e in questo senso i negoziati UE-Asmara sono molto delicati”.
Una nuova primavera? Mentre Smith e colleghi lasciavano il Palazzo di Vetro, la strada accanto rimbombava di slogan. “Down down dictator!”, abbasso il dittatore, “Isaias must go!”, Isaias (Afewerki) deve andare. I “deleiti fithy”, cercatori di giustizia in tigrino, come si chiamano fra loro gli oppositori al regime, si sono contati e hanno capito di essere sempre di più. In questo autunno della dittatura, segnato da fughe illustri, come quella di sette ciclisti e di dieci giocatori della nazionale di calcio, che hanno chiesto asilo in Botswana al termine di una partita o ancora dalla defezione di capi militari, sembra intravedersi una primavera eritrea, tanto che qualcuno, commentando le foto della manifestazione su Facebook, scrive che “il vento è cambiato, e forse Isaias cadrà prima della fine del mandato della Commissione d’Inchiesta”. Che, se accerterà quando già evidenziato, dovrà passare la palla al Consiglio di Sicurezza, per eventuali (nuove) sanzioni e, soprattutto, per una segnalazione alla Corte Penale Internazionale. (Giacomo Zandonini)