“Avrò la gioia di aprire per voi, un po’ in anticipo, il Giubileo della Misericordia, che sarà per tutti, mi auguro, l’occasione provvidenziale per un autentico perdono, da ricevere e da dare, e un rinnovamento nell’amore”. Con queste parole si apre il videomessaggio che papa Francesco ha realizzato per le popolazioni della Repubblica Centrafricana dove, il prossimo 29 novembre, il Pontefice aprirà il Giubileo per l’Africa. Nel corso della sua “prima volta nel continente africano, così bello e ricco nella sua natura, la sua gente e le sue culture”, il Papa visiterà anche il Kenya, dove l’arrivo è previsto nel pomeriggio del 25 novembre, e l’Uganda.
Ma quali sono le aspettative per questa visita? Secondo Padre Renato “Kizito” Sesana, missionario comboniano in Africa dal 1977 che, dal 1988, vive in Kenya, “l’attesa è altissima”. E per farlo capire riporta il pensiero di Jane Wairimu, un’infermiera, le cui parole riassumono un po’ il senso delle risposte dategli dai pazienti in coda al dispensario di Kivuli a Nairobi, “perché è buono e conosce la strada giusta”.
Una strada che passa dal dialogo interreligioso, dal perdono, dalla fratellanza, dalla comprensione e dal rispetto reciproco. Durante il suo viaggio, il Papa incontrerà autorità, corpi diplomatici, vescovi e religiosi, visiterà l’ufficio dell’Onu a Nairobi, ma anche un campo profughi nella Repubblica Centrafricana, la comunità musulmana di Bangui e, soprattutto, incontrerà i giovani che lui considera “la più grande risorsa e speranza per un futuro di solidarietà, pace e progresso”.
La prima tappa del viaggio in Africa del Papa sarà il Kenya. Qual è a suo parere il valore di questa visita?
I vescovi keniani hanno sottolineato che la presenza di Francesco aiuterà il Paese a ritrovare l’unità. In questi anni si sono accentuate molto le divisioni in Kenya, per ragioni politiche ma anche etnico-religiose. Tante fratture, esacerbate da una situazione internazionale non favorevole, dalle diatribe sempre più violente tra i partiti e dai continui scandali per la dilagante corruzione. Il motore vero della società keniana, quella che conta, quella che gestisce il Paese, sembra essere l’arricchirsi il più in fretta possibile, senza nessuna remora etica. E la ruberia dei fondi pubblici è a livelli inimmaginabili: basta pensare che un quarto delle spese effettuate dallo Stato nell’ultimo anno non sono state rendicontate. Ovviamente Francesco non ha la bacchetta magica per risolvere questi problemi, ma la sua sola presenza dà un senso di speranza.
Nel blog che tiene su The Post Internazionale già a settembre scriveva della grande attesa per il possibile arrivo del Papa, considerato “un ospite speciale, che non si sarebbe nascosto dietro i servizi di sicurezza e sarebbe andato a visitare i poveri di Kibera, una delle più grandi baraccopoli dell’Africa”. La visita a Kibera non è in programma ma il Papa si recherà nel quartiere povero di Kangemi…
La visita a Kangemi sarà importante. Non c’è uno slum come a Kibera, c’è l’upper middle class dei poveri di Nairobi, ma rappresenta comunque l’incontro con i poveri della città. Anche se non escludo che Papa Francesco possa fare anche qualche altro gesto “forte” in questo senso. Lui ci ha abituato alle sorprese. Penso, ad esempio, alla comunità delle suore di Madre Teresa a Huruma che accoglie veramente gli ultimi della Terra. Ma anche solo la visita a Kangemi è di grande importanza. Spero che il Papa dica parole forti sulla povertà, le ingiustizie e le contraddizioni, che a Nairobi sono forse più visibili che in qualsiasi altra città al mondo: grattacieli che svettano accanto a enormi baraccopoli, due mondi, due economie che vivono l’una accanto all’altra, separate in modo nettissimo. Un Papa che non esita a mescolarsi con i poveri e a denunciare le vittime di queste gravi ingiustizie sociali è un messaggio importante non solo per i politici, ma anche per la Chiesa che deve, a mio avviso, recuperare maggiormente questa dimensione.
Lei ha scritto che il Papa invitando le parrocchie ad accogliere i profughi ci sta re-insegnando il Vangelo. Da questo punto di vista, come deve cambiare, se deve farlo, la Chiesa in Africa?
Penso che la Chiesa keniana debba recuperare semplicità e contatto diretto con la gente, soprattutto da parte dei leader. Recuperare l’ascolto. Anche come missionari abbiamo forse insistito troppo su una Chiesa che insegna piuttosto che su una che partecipa, condivide, sta in mezzo alla gente. Il rischio è di farla sentire lontana. Spero che Papa Francesco sarà capace di dare e ricevere molte sollecitazioni e presentare una Chiesa che sia molto più inserita nella storia dei popoli. I giovani, in particolare, hanno bisogno di una Chiesa che gli viva accanto. Hanno bisogno di ascolto. Il Kenya, come tutti i Paesi africani, è una nazione giovane. Ma i ragazzi devono affrontare grandi sfide: il lavoro, la casa, la creazione di una famiglia, una vita minimamente dignitosa. Hanno il problema di costruirsi un futuro e spesso sono lasciati soli.
Il dialogo interreligioso è uno dei temi al centro di questa visita. Qual è l’importanza dell’apertura del Papa in questo senso?
Il Kenya è in un contesto geopolitico non facile. Alcuni dei paesi confinanti cono stati teatro di sanguinose guerre civili e nessuno sa con precisione quanti siano i rifugiati nel Paese, certamente oltre un milione. In Somalia opera il gruppo terroristico Al Shaabab, che sarebbe responsabile anche della strage all’università keniana di Garissa, avvenuta lo scorso aprile, dove sono morti 148 studenti. Devo dire che la maggior parte della gente ha cercato di “riassorbire” questo enorme trauma con molta semplicità, ma c’è anche chi soffia su queste divisioni “religiose”, per motivi politici e di potere. Questo, dunque, mi aspetto dal Papa, così come molte altre persone: che contribuisca a risanare queste fratture e insista sul perdono e la necessità di riallacciare le relazioni che si sono spezzate.
Da missionario che vive da tanto tempo in Kenya, cosa chiederebbe idealmente al Papa?
A Nairobi hanno sede due importanti agenzie dell’Onu. Immagino che il Papa riprenderà con loro i temi che ha trattato al Palazzo di Vetro a New York, calandoli nella realtà africana. Sono tante le questioni, dalla povertà alle sperequazioni, dal land grabbing alle guerre. C’è bisogno di condanna ma anche di responsabilità, soprattutto nei confronti della violenza dilagante. Penso non solo alle situazioni di conflitto, ma a tutti i contesti in cui si è diffusa e consolidata una cultura della violenza. Situazioni che sfuggono a definizioni precise, ma che si sono radicate ed esacerbate, rendendo impossibile una vita pacifica e dignitosa per la gente. Ecco, io vedo Francesco come un grande ispiratore della nonviolenza. Chiederei non a lui ma ai vescovi africani di seguirlo decisamente in questa strada. Nello stesso tempo, il Papa farà certamente risaltare la differenza tra la Chiesa e il mondo delle Nazioni Unite e, in genere, l’umanitario. In certe situazioni di guerra e povertà la Chiesa africana è intervenuta in modo efficace, eppure questo rischia di snaturare la sua azione. Il modo in cui la Chiesa interviene in situazioni di guerra e povertà deve essere radicalmente diverso da quello delle ong. (lp)