In Africa ci sono i migliori padri del mondo
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In Africa ci sono i migliori padri del mondo

Mentre le donne cacciano, gli uomini si occupano dei bambini attaccandoli anche ai capezzoli. L’antropologo B. Hewlett spiega perché i pigmei Aka sono genitori speciali.

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15 Febbraio 2016 - 09.20


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di Joanna Moorhead

È una domanda che unisce Aristotele, Darwin e mio figlio di tre anni: a che cosa servono i capezzoli nel corpo maschile? Questa settimana, l’associazione benefica Fathers Direct ha trovato la risposta, grazie alla scoperta di una ricerca su una tribù pigmea nomade di cacciatori-raccoglitori. La risposta, sembra, è quella che mio figlio di tre anni (e Darwin, ad essere precisi) hanno sempre sospettato: i capezzoli maschili sono lì come surrogato per quando la mamma non è presente e c’è un neonato urlante con un disperato bisogno di qualcosa da succhiare.
E, pensandoci bene, perché non dovrebbero? Di certo il capezzolo maschile, pur essendo carente in termini di sostentamento, dà una sensazione di suzione più soddisfacente di quella che potrebbe dare, diciamo, un pupazzo.
È certamente quello che deve aver pensato il Professor Barry Hewlett, un antropologo statunitense che è stato la prima persona ad osservare l’allattamento al seno maschile nel popolo pigmeo degli Aka nell’Africa centrale (con una popolazione di circa 20.000 persone) dopo aver deciso di vivere in mezzo a loro per studiare da vicino il loro modo di vivere. Nel momento in cui ha iniziato a notare che i padri a volte attaccavano al seno i neonati, non è stata una rivelazione tanto sorprendente come sarebbe stata se avesse assistito alla scena nella sala del Mothercare di Manchester.

Perché per allora Hewlett aveva capito che, quando si tratta di genitorialità e parità di genere, gli Aka – che chiamano sé stessi la gente della foresta – battono di gran lunga chiunque altro lui abbia mai studiato. Secondo i dati che aveva iniziato a raccogliere più di due decenni fa, i padri Aka restano nelle vicinanze dei loro bambini il 47% del tempo – che è palesemente di più rispetto ai padri di qualsiasi altro gruppo culturale del pianeta, ed è per questo che Fathers Direct ha deciso di definire gli Aka «i migliori padre del mondo».
La cosa affascinante riguardo agli Aka è che i ruoli maschile e femminile sono virtualmente intercambiabili. Mentre le donne cacciano, gli uomini si occupano dei bambini; mentre gli uomini cucinano, le donne decidono dove posizionare il prossimo accampamento. E viceversa: ed è in questo viceversa, dice Hewlett, che troviamo un messaggio davvero importante. «C’è una divisione sessuale del lavoro nella comunità degli Aka – le donne, per esempio, sono le prime prestatrici di cura», afferma. «Ma, e questo è decisivo, c’è un livello di flessibilità praticamente sconosciuto nella nostra società. I padri Aka occupano ruoli solitamente occupati dalle madri senza pensarci due volte e, cosa più importante, senza alcuna perdita di status – non c’è stigma legato ai diversi compiti».
Un aspetto particolarmente interessante della vita degli Aka è che le donne non sono soltanto brave a cacciare quanto gli uomini, ma a volte sanno cacciare meglio. Finora si era sempre pensato che, per via del ruolo di genitrici e di accudire la prole, la caccia fosse storicamente un privilegio universalmente maschile: ma in uno studio Hewlett ha trovato una donna che ha cacciato fino all’ottavo mese di gravidanza ed è tornata a usare le sue reti e le sue lance appena un mese dopo aver partorito. Altre madri vanno a cacciare con i loro neonati legati sul fianco, nonostante il fatto che la loro preda, il duiker (un tipo di antilope), può essere un animale pericoloso.

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Se tutto questo suona come un paradiso femminista c’è, purtroppo, una nota stonata: Hewlett ha scoperto che, mentre le mansioni e il processo decisionale sono attività largamente condivise, gli Aka operano una discriminazione verticale. Le posizioni più importanti della tribù vanno invariabilmente alla popolazione maschile: nella comunità da lui studiata il kombeti (capo), il tuma (cacciatore di elefanti) e il nganga (guaritore) sono tutti uomini. Ma ciò non toglie, dice, l’importante contributo dei padri nell’accudimento della prole: e non riduce neanche l’impatto del messaggio che la tribù degli Aka ha per le coppie occidentali che si sforzano di trovare un equilibrio tra le esigenze di lavoro, la cura della casa, l’autorealizzazione e la crescita dei figli.

«Il punto per gli Aka», dice Hewlett, «è che il ruolo attivo dei padri è semplicemente un aspetto del loro generale approccio alla vita, ed è da questo approccio, innegabilmente, che possiamo imparare. Un aspetto fondamentale nella crescita della prole è l’importanza che viene data alla vicinanza fisica: intorno ai tre mesi, il bebè ha un contatto fisico quasi costante con uno dei due genitori o con un’altra persona. In un campo Aka non esistono culle perché è impensabile per una coppia lasciare il proprio bebè sdraiato e incustodito – i bambini sono tenuti in braccio tutto il tempo». I padri Aka, sembra, non sono contrari neanche a recarsi al loro equivalente del pub con un bambino stretto al petto (o persino attaccato al seno); il tipple, vino di palma, viene spesso condiviso da un gruppo di uomini con i loro piccoli tra le braccia.
Siamo molto lontani dall’occidente e, dice Hewlett, la prima cosa su cui i padri qui potrebbero riflettere è la mancanza di tempo e di contatto fisico che spesso hanno per i loro figli più piccoli. «Nella nostra società c’è la convinzione che i padri non possano sempre essere presenti e che bisogna rinunciare a stare a lungo con il nostro bambino ma che si può rimediare dando qualità al tempo che invece dedichiamo loro», dice. «Ma dopo essere vissuto con gli Aka, ho cominciato a dubitare della saggezza di quel principio. Mi sembra che ciò di cui hanno bisogno i padri è molto più tempo con i loro figli, e li dovrebbero stringere al petto molto più di quanto non facciano oggi. Ci sono molti contributi positivi che i padri possono dare nel crescere la loro prole, ma non dovrebbero sottovalutare l’importanza del tatto e delle coccole».
Questa è una delle lezioni più importanti che gli Aka hanno apportato all’esperienza di Hewlett come genitore: lui è padre di sette figli, di un’età tra i 13 e i 22 anni, e ha organizzato la sua vita e la sua carriera in modo da poter essere molto presente durante la loro crescita. Ha detto che i suoi studi sugli Aka lo hanno anche reso un padre che concede più fiducia e condivide di più (due qualità di cui gli Aka abbondano, sembra).

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Un’altra lezione che possiamo imparare dagli Aka – e questa riguarda tutti noi, sia madri sia padri – è quanto siano preziosi i bambini e quanto siamo fortunati ad averli nelle nostre vite. Se suona un po’ sdolcinato, beh, è proprio per questo che abbiamo bisogno di sentircelo dire: il fatto è, dice Hewlett, che siamo stati portati a credere che i nostri figli siano un peso invece di una benedizione e questo è qualcosa che gli Aka non provano mai. «Per gli Aka, i figli sono il vero valore della vita. L’idea di un bambino come un peso sarebbe incomprensibile per loro… i bambini sono l’energia, la forza vitale della comunità». Il detto di un’altra tribù da lui studiata, quella dei Fulani, rende bene l’idea: loro dicono che sei fortunato se hai qualcuno che ti caca addosso.
Ma tornando all’allattamento maschile: Jack O’Sullivan di Fathers Direct dice che è stato invitato ad una infinità di programmi televisivi subito dopo l’uscita del rapporto, e si è trovato ad affrontare un misto di orrore, costernazione e sostegno. «Alcuni padri chiamavano per dire che consentono ai loro piccoli di succhiare loro i capezzoli – spesso succede quando sono a letto con il bebè sdraiato sul torace», afferma. Ma alcune persone erano disgustate: le parole “abuso di minore” sono venute fuori più di una volta, cosa che evidenzia interessanti differenze culturali se si pensa che, per il popolo Aka, per molti aspetti il modo in cui cresciamo i nostri figli verrebbe considerato abuso di minore (i bebè messi a dormire in una stanza diversa da quella dei genitori, per esempio).

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Per O’Sullivan, è triste pensare che la reazione negativa alla vita degli Aka evidenzi il continuo imbarazzo sull’intimità tra i padri e i loro bebè: mentre l’intimità madre-figlio è di dominio pubblico, e viene celebrata, l’intimità padre-figlio è ancora considerata problematica e da evitare, nonostante un crescente numero di prove che mostra che, data la possibilità, i padri possono essere altrettanto accudenti delle madri verso i propri neonati in termini di lettura dei segnali e di comunicazione con loro. In poche parole, dice O’Sullivan, gli uomini hanno paura dell’intimità con neonati e bambini piccoli – e forse guardare quella paura con occhi nuovi, facendo riferimento all’esperienza degli Aka, per gli uomini potrebbe essere un’esperienza utile e liberatoria.

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