Obama si confessa: errore l'attacco in Libia del 2011
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Obama si confessa: errore l'attacco in Libia del 2011

Nell'intervista a The Atlantic il presidente Usa definisce gli alleati 'free rider', opportunisti. Critica Sarkozy, Cameron, e sauditi. Orgoglioso del dietrofront sui raid in Siria.

Obama si confessa: errore l'attacco in Libia nel 2011
Obama si confessa: errore l'attacco in Libia nel 2011
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10 Marzo 2016 - 18.37


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Una lunga intervista quella del presidente Obama al The Atlanitc, che ha toccato molti fronti caldi della politica estera Usa.

Libia. “Quando mi guardo indietro e mi chiedo cosa sia stato fatto di sbagliato – ha spiegato Obama – mi posso criticare per il fatto di avere avuto troppa fiducia nel fatto che gli europei, vista la vicinanza con la Libia, sia sarebbero impegnati di più con il follow-up”. Con il Pentagono che prepara i piani per un nuovo intervento in Libia, Barack Obama ammette che il suo sostegno all’intervento della Nato nel 2011 fu “un errore”, dovuto in parte alla sua errata convinzione che Francia e Gran Bretagna avrebbero sostenuto un peso maggiore dell’operazione.

“Non ha funzionato” e “nonostante tutto quello che si è fatto, la Libia ora è nel caos”, ha detto il presidente in una lunghissima intervista sulla sua politica estera al The Atlantic, che la titola ‘The Obama doctrine’, durante la quale bolla gli alleati, dei paesi del Golfo ma anche europei, come “opportunisti”. E fa il nome del presidente Nicolas Sarkozy “che voleva vantarsi di tutti gli aerei abbattuti nella campagna, nonostante il fatto che avessimo distrutto noi tutte le difese aeree”.

Poi l’affondo, anche questo andava bene perché, continua il presidente americano “permise di acquistare il coinvolgimento della Francia in modo che fosse meno costoso e rischioso per noi”. Obama non esita poi a coinvolgere nelle critiche anche David Cameron che dopo l’avvio dell’intervento perse interesse, “distratto da una serie di altre questioni”.

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Un’intervista lunga in cui Obama si confida con Jeffrey Goldberg, autore dell’articolo, e racconta come la sua amministrazione fosse spaccata sull’intervento – con Hillary Clinton, bisogna sottolinearlo, alla guida dei falchi – e come vi fossero pressioni da parte dell’Europa e dai paesi del Golfo all’azione, come da sempre gli alleati fanno con Washington. “E’ ormai diventata un’abitudine negli ultimi decenni – si lamenta – che in questi circostanze la gente ci spinga ad agire ma non mostra nessuna intenzione di rischiare nulla nel gioco”.

Arabia Saudita. Sono “opportunisti”, “free rider”, cioè quelli che viaggiano gratis, e rivolge anche un serio monito all’Arabia Saudita, alleato storico che ha duramente criticato l’accordo nucleare con Teheran, sottolineando come debba imparare a “dividere” la regione con l’arcinemico iraniano con il quale condivide la responsabilità di attizzare i conflitti in Siria, Iraq e Yemen. I sauditi “devono trovare un modo efficace di condividere il vicinato ed istituire una pace fredda” ha poi aggiunto, spiegando che se gli Usa dovessero sostenerli acriticamente contro l’Iran “questo significherebbe che noi inizieremmo ad usare i nostri interventi e la forza militare per azioni punitive, ma questo non sarebbe nell’interesse degli Usa né del Medio Oriente”.

La decisione sulla Siria. In compenso Obama si dice “orgoglioso” della decisione presa nell’agosto del 2013 di fare marcia indietro, quando ormai le macchine della guerra e del consenso si erano messe in moto, sulla decisione di avviare i raid aerei in Siria per punire l’utilizzo di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad. “Sapevo che premere il pulsante di pausa per me avrebbe avuto un costo politico, ma sono riuscito a svincolarmi dalle pressioni e pensare in modo autonomo a quale fosse l’interesse dell’America, non solo rispetto alla Siria ma anche rispetto alla democrazia”.

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“E’ stata una decisione difficile, e credo che alla fine è stata la decisione giusta”, ha detto ancora il presidente difendendo la scelta di non intervenire allora contro Assad, criticata da molti e considerata il peccato all’origine del baratro in cui ora è precipitata la Siria. L’articolo sulla politica estera del presidente uscente ricostruisce i retroscena di quella guerra mancata, anche attraverso la voce altri membri dell’amministrazione, a partire da John Kerry che il 30 agosto aveva pronunciato un discorso che suonò come un’effettiva dichiarazione di guerra. Il segretario di Stato ha confidato a Goldberg che era sicuro che i raid sarebbero scattati il giorno dopo.

nvece il presidente – che si sentiva di “andare verso una trappola, preparata da alleati ed avversari e dal consenso sulle aspettative che si hanno riguardo a quello che il presidente americano deve fare”, scrive Goldberg – al suo consiglio di guerra riunito annunciò, tra lo stupore di tutti, che non ci sarebbe stato nessun raid il giorno successivo ma che voleva chiedere un voto al Congresso sul raid.

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Le critiche alla decisione.
La decisione di Obama provocò immediate e durissime reazioni sia da parte di alleati sia interni che esterni. Hillary Clinton – possibile prossimo presidente degli Stati Uniti che aveva avuto modo di mostrare da segretario di Stato in Libia la sua filosofia interventista – nel 2014, sempre a The Atlantic, ha durante criticato quella scelta: “Il non aver costruito una credibile forza in aiuto delle persone che originarono le proteste contro Assad ha lasciato un grande vuoto che ora stanno riempendo i jihadisti”.
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Ma oggi Obama difende con vigore quella decisione di ribellarsi a quello che chiama “il libro delle regole di Washington, che prevede risposte a diversi eventi, risposte che tendono ad essere militarizzate. Quando l’America è minacciata direttamente, il libro funziona, ma può anche diventare una trappola che ti porta a decisioni sbagliate. Nel mezzo di una sfida internazionale come la Siria – ha concluso – viene criticato severamente se non segui le regole, anche se vi sono buone ragioni per farlo”.

E le ragioni per Obama erano gli errori commessi dal suo predecessore con il suo interventismo e la sua democrazia esportata in Medio Oriente, ricorda Goldberg che rivela anche come Obama consideri il primo compito di un presidente nell’arena internazionale del post Bush “don’t do stupid shit”, non fare cose stupide.

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