Al Sisi: la Libia sarà un'altra Somalia
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Al Sisi: la Libia sarà un'altra Somalia

L'intervista al presidente egiziano: l'intervento potrebbe provocare effetti incontrollabili. Non c'è solo l'Isis, un piano contro tutti i jihadisti. Le 5 domande di Al Sisi sulla Libia.

Le 5 domande di Al Sisi sulla Libia
Le 5 domande di Al Sisi sulla Libia
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17 Marzo 2016 - 09.44


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Il presidente Abdel al-Fattah Al Sisi ha rilasciato un’intervista esclusiva a Repubblica in cui dopo aver affrontato la questione Regeni e aver [url”promesso collaborazione”]http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=86455&typeb=0&caso-regeni-la-procura-di-roma-indaga-sulla-scomparsa-di-un-egiziano[/url] per cercare la verità sulla morte del ricercatore italiano, ha affrontato anche il nodo Libia.

Le 5 domande di Al Sisi sulla Libia. Nell’intervista effettuata dallo stesso direttore della testata Mario Calabresi, insieme a Gianluca di Feo il presidente pur ribadendo la disponibilità dell’Egitto a contribuire a eventuali iniziative militari, ci tiene a sottolineare i rischi di una missione a guida italiana sull’altra sponda del Mediterraneo e lo fa attraverso 5 domande.

“Mi sembra opportuno porre cinque domande. Uno: come entriamo in Libia e come ne usciamo? Due: chi avrà la responsabilità di rifondare le forze armate e gli apparati di polizia? Tre: nel corso della missione, come si farà a gestire la sicurezza e proteggere la popolazione? Quattro: un intervento sarà in grado di provvedere ai bisogni e alle necessità di tutte le comunità e i popoli della Libia? Cinque: chi si occuperà della ricostruzione materiale? Perché un intervento esterno abbia successo è necessario che riesca a farsi carico di tutti gli aspetti della vita del paese. Non vorrei apparire esagerato nel sottolineare queste domande, ma si tratta dei problemi con cui dovremmo misurarci nell’eventualità di una operazione sul campo. E in ogni caso è molto importante che ogni iniziativa italiana, europea o internazionale avvenga su richiesta libica e sotto il mandato delle Nazioni Unite e della Lega Araba”.

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Al Sisi, l’Italia rischia un’altra Somalia. “Bisogna tenere a mente due lezioni”, spiega: “Quella dell’Afghanistan e della Somalia. Lì ci sono stati interventi stranieri più di trent’anni fa e quali progressi sono stati raggiunti da allora? I risultati sono sotto gli occhi di tutti:
la storia parla chiaro”. Gli interrogativi di Al Sisi su una missione in Libia sono diversi e oltre all’exit strategy riguardano le responsabilità di rifondare le forze armate e gli apparati di polizia, la gestione della sicurezza, l’interesse a provvedere ai bisogni e alle necessità di tutte le comunità e i popoli della Libia, la ricostruzione materiale. “Si tratta dei problemi con cui dovremmo misurarci nell’eventualità di una operazione sul campo”, sottolinea. “E in ogni caso è molto importante che ogni iniziativa italiana, europea o internazionale avvenga su richiesta libica e sotto il mandato delle Nazioni Unite e della Lega Araba”.

Non solo Isis. Secondo Al Sisi c’è un errore di fondo: “Gli europei guardano alla Libia come se l’Isis fosse l’unica minaccia”, mentre “bisogna essere consapevoli del fatto che abbiamo davanti sigle differenti con la stessa ideologia”. All’intervento occidentale Al Sisi suggerisce un’alternativa: appoggiare l’Esercito nazionale libico del generale Haftar, l’armata legata al parlamento di Tobruk. “Ci sono risultati positivi che si possono raggiungere sostenendo l’Esercito nazionale libico. E questi risultati si possono ottenere prima che noi ci assumiamo la responsabilità di un intervento”.

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Immigrazione. Al Sisi affronta anche il nodo immigrazione. “Quando parliamo di sforzi per contrastare il traffico di esseri umani non possiamo pensare di eludere o dimenticare le radici di questo fenomeno”, afferma. “L’Unione Europea può avere un ruolo fondamentale per lavorare sulle cause, aiutando i paesi da cui partono i migranti e collaborando agli sforzi per diminuire i conflitti e eliminare il terrorismo”. “L’Europa deve sostenere quei paesi dove ci sono fame e disperazione così da creare un ambiente più sicuro e stabile che convinca i giovani a restare a casa e a non partire. Questo, in senso metaforico, sarebbe il vero muro da costruire”.

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