Per la strage di bambini di Manbij niente candele: solo il silenzio dei giornali
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Per la strage di bambini di Manbij niente candele: solo il silenzio dei giornali

La morte di 125 innocenti non merita inviati, peluche. Nessuna pietà per i poveri sfollati siriani

Bambini uccisi nei bombardamenti
Bambini uccisi nei bombardamenti
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

21 Luglio 2016 - 17.50


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di Onofrio Dispenza

Partiamo da un dato: notizia e foto della strage di Manbij, su Globalist, letta e viste da più di 130mila persone. Un numero che cresce di ora in ora. Parto da questo dato non per una autocelebrazione, ma solo per trovare quelle che forse sono le ragioni di questo dato. Intanto, riepiloghiamo il fatto: a Manbji, una città siriana al confine con la Turchia, un bombardamento aereo americano ha fatto 125 vittime. Per lo più, donne, bambini e vecchi. Ero stato avvertito, e confesso che non ho voluto guardare le foto. Ma, me le hanno raccontate. Uomini anziani, donne e bambini, sfollati, in fuga dall’Isis che aveva ridotto al minimo la popolazione adulta maschile.
Perché tanti lettori su Globalist? Semplice, perché la notizia altrove era praticamente assente. Centoventicinque morti, con un buon numero di bambini, senza passaporto per il mondo, e per le news. Morti senza memoriale, senza candele, senza bigliettini, senza peluche, senza inviati, senza prime pagine, senza l’esercizio di cronache strazianti.  Solo un metro e passa di terra sulle fosse comuni, perché l’odore di morte resti seppellito. Perché in questo sobborgo di Manbij, a Tokhar, chi è rimasto vivo deve continuare a vivere. Anche se, vivere è una parola grossa, sopravvivere forse.
Le cose e gli uomini che fanno la cronaca, e che fanno la cronaca che diventa Storia. Negli eventi tragici che stanno determinando una drammatica mutazione della nostra vita quotidiana, per capire bisogna fare come i geologi. Se c’è una frana, non basta guardare il cumulo di massi che è venuto giù, rimuoverli. Occorre salire e andare a trovare le ragioni della frana. Per capire e prevenire altre frane. Bruxelles, Parigi, Nizza, il terrore in Germania, quello dell’altra sponda del Mediterraneo, e poi in Africa, e le minacce appena arrivate, di impiantare l’orrore anche in un Brasile bandiera del gioco e della gioia, tutto va raccontato, senza silenzi ed omissioni, accomunandoci in una rivolta indignata, con un messaggio univoco che non passeranno. Ma va anche ricordato e  raccontato il calvario quotidiano della Siria, il prezzo sproporzionato pagato dai siriani di ogni età ad un gioco feroce e terribile che li vede innocenti. Non si possono tacere gli orrori quotidiani subìti da quel popolo che faceva convivere nelle sue strade la moschera alla sinagoga e alla chiesa dei francescani, accogliendo a braccia aperte giovani americani ed europei desiderosi di imparare l’arabo, di conoscere i segni e gli eredi di una antica civiltà. Ho conosciuto Damasco gioiosa, moderna e aperta, sorridente e profumata di spezie, frutta e gelsomini. Ho conosciuto le ombre delle sue moschee e le strade assolate che portano al grande, straordinario suk col gelato al pistacchio più buono del mondo. Damasco, la Siria, i siriani non meritano l’oblio. I loro morti meritano, se non un memoriale, almeno una mattonella della nostra memoria.

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