L'immagine del bimbo Rohingya in fuga dalla Birmania fa piangere il mondo
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L'immagine del bimbo Rohingya in fuga dalla Birmania fa piangere il mondo

Il piccolo, Mohammed Shohayet, stava fuggendo con la sua famiglia dalla pulizia etnica.

I corpi senza vita di Mohammed Shohaye e Aylan Kurdi,
I corpi senza vita di Mohammed Shohaye e Aylan Kurdi,
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5 Gennaio 2017 - 11.21


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Mentre qualche giorno veniva battuta nell’indifferenza quasi generale la notizia di stupri e uccisioni in Birmania contro la popolazione di etnia Rohingya, minoranza musulmana del Paese, oggi l’orrore dell’ennesima tragedia umanitaria si è concretizzata in una foto. Uno scatto che ricorda purtroppo molto da vicino quello che divenne il simbolo della traversata per mare di migliaia di siriani in cerca di rifugio: il cadavere del piccolo Aylan Kurdi, annegato durante un naufragio nel settembre 2015. Oggi a morire a faccia in giù in una pozza di fango è Mohammed Shohayet, un bimbo di 16 mesi di etnia Rohingya diventato, suo malgrado, l’atto d’accusa nei confronti dei militari della Birmania, che ancora oggi negano la pulizia etnica della quale si stanno macchiando le mani.

L’immagine di Aylan commosse il mondo, divenne simbolo della tragedia dell’immigrazione e, nell’era dei social, finì addirittura come immagine profilo di molti utenti aprendo anche a diverse polemiche. Quella di Mohammed, annegato insieme a mamma, fratellino e zio mentre, sotto al fuoco dei militari, mentre tentava la traversata del fiume Naf, confine fra Birmania e Bangladesh, potrebbe diventare l’icona di una guerra sconosciuta. “Quando vedo questa foto, sento che vorrei morire. Non ha più senso per me vivere in questo mondo”, ha detto alla Cnn il giovane padre del bimbo, Zafor Alam.

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L’uomo ha raccontato all’emittente televisiva la sua storia (qui): “Nel nostro villaggio gli elicotteri ci hanno sparato contro. Non potevamo restare nella nostra casa. Abbiano dovuto scappare e nasconderci nella giungla. Ma mio nonno e mia nonna sono stati bruciati vivi. Il nostro villaggio è stato incendiato dai militari. Non è rimasto nulla”. Quel massacro era solo l’inizio della tragica odissea: “Ho camminato per sei giorni. Non ho potuto mangiare neanche riso per quattro giorni. Non ho potuto dormire per sei giorni. Dovevamo cambiare posto continuamente perché i soldati cercavano i Rohingya”.

Secondo stime dell’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso quel fiume maledetto. Musulmani, di lingua affine al bengalese, sono circa un milione e vivono nello stato birmano occidentale di Rakhine. Le organizzazioni umanitarie denunciano la loro privazione di ogni diritto e la grande maggioranza dei birmani li considera immigrati provenienti dal Bangladesh illegalmente insediatisi in Birmania. In autunno è iniziata un’operazione militare che si configura come vera e propria pulizia etnica. Una macchia che pesa come un macigno sulla giovanissima democrazia birmana, dove i militari sono sospettati di comandare ancora, anche se dietro le quinte. Una macchia che finisce per ledere anche l’immagine dell’eroina della libertà, Aung San Suu Kyi, capo ‘de facto’ del governo, che sulla vicenda è rimasta in assordante silenzio.

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