Il quesito da porsi davanti alla decisione dei regni del Golfo – a cominciare dall’Arabia Saudita, potenza regionale – di tagliare ogni rapporto (da quelli diplomatici a quelli dei trasporti) con il Qatar non è ”perché”, ma ”perché ora”. La situazione nel Golfo, politica, economica, militare, è da anni ormai sul crinale dell’implosione e non soltanto, come pure si potrebbe pensare, per l’ingombrante presenza di una Stato (quello saudita) che regge ruoli differenti e tutti importanti nello scacchiere dell’area: da quello di contraltare contro l’Iran sciita (e con i movimenti islamisti armati che la repubblica foraggia), a quello di ancora importantissimo serbatoio di idrocarburi, a quello – che forse in molti sottovalutano – di custode dei luoghi sacri dell’Islam, raggiunti ogni anno da milioni di pellegrini che arrivano da tutto il mondo.
Il Qatar, per parte sua, resta un semplice emirato, geograficamente pochissimo esteso, ma che ha dalla sua un’economia certamente monodimensionale – basata sull’estrazione e sulla vendita del petrolio – ma che gli consente uno spaventoso surplus commerciale e con esso lo status di nazione con il più alto reddito pro capite (e poco importa se di questo ne godono solo i qatarini doc e non le decine di migliaia di immigrati spesso al limite della schiavitù che, di fatto, consentono alla classe dirigente di andare avanti, tra fuoriserie e ville principesche).
Per capire l’entità della decisione assunta da Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati (assieme all’Egitto) bisogna ricordare il ruolo che il Qatar ha da sempre nella politica dei Paesi che si sentono investiti della missione di alzare il vessillo dell’islam più tradizionalista, come quello propugnato dalla corrente wahabita (maggioritaria, peraltro, anche tra i sauditi). Questa operazione (perchè è di questo che si parla) non è cominciata oggi e messa in luce dalla messa al bando del Qatar, ma va avanti da anni, con un picco (che ancora prosegue) cominciato all’indomani della stagione delle ”primavere arabe”. Movimenti che hanno buttato giù regimi dittatoriali (Libia e Tunisia), incrinato certezze (Algeria e Marocco), stravolto sistemi (Egitto), ma, per contro, hanno determinato vuoti amplissimi nella gestione del potere reale, nei quali la diplomazia qatarina ha cercato di inserirsi. Se ci si interroga su come uno Stato possa ingerirsi nella politica di un altro senza divenirne un nemico è presto detto. Basta presentarsi con la facies del benefattore, penetrando il tessuto economico (e quindi sociale) degli altri con forme surrettizie di ”occupazione” determinate dall’enorme capacità finanziaria. Quindi prestiti ingentissimi (prestiti non certo regali, con tassi elevati ben più di quelli praticati da altri soggetti economici) , acquisizione di attività economiche (industrie ed imprese rivitalizzate da sostaziose iniezioni di denaro), acquisto di vastissimi terreni. Questo tipo di comportamento – che in Tunisia ha avuto come ripercussione la nascita di un movimento spontaneo anti-qatarino – ha fatto sì che porzioni consistenti di economie nazionali siano oggi condizionate dalle scelte del Qatar. Che, ed è questo un altro punto da valutare, ha anche deciso di penetrare le leadership religiose dei Paesi del Nord Africa, foraggiando le missioni di decine e decine di predicatori wahabiti, che hanno creato le condizioni perchè attecchissero le teorie estremiste dei salafiti e, con esse, favorendo la nascita dui gruppi radicali che hanno scelto la lotta armata. Predicatori che, con le tasche piene di soldi, giravano per i centri meno ricchi per ammaliare i giovani più disperati con la speranza di rinascita sociale se decidevano di abbracciare il credo wahabita.
La tenacia con cui il Qatar ha perseguito i suoi obiettivi non può essere spiegata se non si guarda alla famiglia che guida l’emirato, quella degli al Thani che ha acquisito notorietà planetaria (cosa che cercava con pervicacia) mischiando economia, sport, politica, arte – un mix apparentemente inspiegabile per un emirato del Golfo, ma che trova la sua essenza nell’ipertrofico ego della classe dirigente qatarina, sempre in prima fila quando c’è ba bacchettare, ma che sa defilarsi quando le cose prendono una brutta piega.
Ma questa politica ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, come dimostrano gli incredibili successi, a cominicare dall’assegnazione dei mondiali di calcio del 2022, conquistati con una aggressività che per molti nasconde una spregiudicata politica di acquisizione dei voti. Perché, diciamolo, fare disputare un mondiale di calcio in un Paese del Golfo, dove le alte temperature sono proibitive per chi non è un cammello, è quanto meno singolare, se non folle.
Ma la politica sostenuta dal denaro è anche questa, come confermano le moltissime attività nelle quali è entrato il Qatar Investmen Authority, il fondo sovrano katarino, sul cui regno non tramonta mai il sole. Lo dicono le partecipazioni più recenti, dalla Russia (Rosneft) alla Gran Bretagna (National Grid).
E siccome non c’è politica senza esibizione di muscoli, l’Emirato spende molto anche in termini di armamenti. Perché Trump da un lato accusa implicitamente il Qatar di rapporti troppo stretti con l’Iran, dall’altro gli vende armi, sul cui utilizzo, e quindi destinazione, non ci sono certezze.
L’emarginazione politica del Qatar avrà tempi bvrevissimi (è stata decisa anche la sua esclusione dal Consiglio di cooperazione del Golfo, una piccola Onu regionale), dando il via, c’è da pensarlo, ad una trama diplomatica per comporre la frattura. Ma, ad oggi almeno, sembra una impresa con poche possibilità di riuscita nel breve periodo perché se l’Arabia Saudita ed i suoi alleati hanno deciso in tal senso evidetemente la misura s’era colmata da tempo.
Ora bisognerà vedere come possa evolversi questa situazione in termini di diplomazia globale. Chiusa dal ”no” degli ex Paesi amici, il Qatar potrebbe rinsaldare ulteriormente i suoi rapporti ”anomali” con l’Iran sciita, da cui sperare d’avere una sponda per proseguire nelle sue strategie. Ma tutto resta avvolto nella nebbia della galassia islamica, in cui il comune pensare religioso diventa pericolosamente strabico quando entra in gioco l’interesse particolare.
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