Io, fotografo del ponte de la Chapelle, vi racconto l'umanità in fuga
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Io, fotografo del ponte de la Chapelle, vi racconto l'umanità in fuga

A Parigi, tra gli uomini e le donne accampate nel cuore della capitale francese. Il racconto e le foto di una realtà drammatica e poco conosciuta

Uno scatto di Lillo Rizzo sui rifugiati a Parigi
Uno scatto di Lillo Rizzo sui rifugiati a Parigi
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

4 Agosto 2017 - 18.31


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“Nel 2016, eravamo a novembre, quando c’è stato uno dei più imponenti sgomberi di migranti. Più di tremila, somali, eritrei, sudanesi la maggior parte provenienti dalla “Giungla di Calais”, tra loro un gruppo di migranti riuscito a passare da Ventimiglia”. Lillo Rizzo, fotografo italiano vive a Parigi. Qui c’è arrivato dopo aver attraversato i tanti Sud del Mondo. Lui che nel Sud di antiche migrazioni c’è nato, la Sicilia. Lui che nella sua Agrigento ha raccontato in bianco e nero quel santo nero venuto dall’Africa, San Calogero, ora venerato da chi è riuscito ad arrivare sano e salvo, raccolto da braccia generose, nel Mediterraneo. E qui, a Parigi, ha continuato il suo racconto fotografico di quell’umanità costretta a sdradicarsi per fame o guerra. Con Lillo Rizzo, in questa caldissima estate che non risparmia Parigi, lungo le strade che si sono trasformati in accampamenti o campo di battaglia di interventi di polizia. “I campi erano nati lungo tutto questo viale alberato centrale, Avenue De Flandre, e in parte nei viali laterali. Altri due campi si erano formati a poche centinaia di metri, sotto i ponti della metro di Laurés e a Place de Stalingrad”. Luoghi familiari per Lillo Rizzo, che qui ci abita. “Io ho seguito dal nascere questi campi, cercando di documentare il quotidiano di queste persone, non solamente fotografando, ma facendomi raccontare le loro storie. Molti avevano voglia di parlare, d’essere ascoltati. Le loro sono storie drammatiche, fatte di dolore. Chi fuggiva dalla guerra chi dalla fame e dalla carestia”. Lillo Rizzo spesso smetteva di fotografare, metteva da parte la sua macchina fotografica e raccoglieva dai loro racconti le immagini di una tragedia della quale ancora non conosciamo gli atti a venire. “Famiglie che durante il viaggio, attraversando il deserto per arrivare in Libia, per imbarcarsi, venivano rinchiuse in una specie di carcere, in qualcosa di più infernale di un carcere”. E il racconto era di violenze su violenze, di soprusi e ricatti. “Molto spesso sceglievano membri della famiglia in fuga che venivano utilizzati come schiavi. Schiavizzati perché pagassero così il segmento di viaggio più pericoloso, l attraversamento del Mediterraneo”. E i racconti raccolti da Lillo Rizzo lungo le strade di Parigi, ai margini di campi fatti di tende che alternavano i colori sono forti come la stessa fotografia non potrebbe raccontare. La voce rotta, e le lacrime hanno una potenza che non ha alcuna arte umana pensata per raccontare il bene e il male. madri che affidavano i propri figli di pochi anni ad altre persone che riuscivano ad imbarcarsi prima di loro, le donne violentate nei “centri” libici nella disumana attesa di imbarcarsi sperando in una nuova vita nella ricca Europa. “Quello che ho capito – dice, infatti, Lillo Rizzo – è che c’è un dolore, questo dolore, non si può fotografare. Un’immagine fotografica non rende visivo questo dolore. Non rende giustizia…”
Subito dopo lo sgombero – ricostruisce Rizzo – tutta la zona dell’Avenue De Flandre, Jaurés e Place de Stalingrad è stata “militarizzata” con la presenza di camionette della CRS, poliziotti armati e in tenuta anti-sommossa, per evitare che si

formassero nuovamente i campi. La prefettura di Parigi ha autorizzato la costruzione di barriere metalliche per “blindare” il viale. Questo ha comportato l’eliminazione di spazi pubblici, qui non si può più passeggiare né andare a cercare un po’ di fresco nelle panchine lungo il viale alberato centrale dell’Avenue De Flandre, come si faceva un tempo.

Continuiamo lungo le “stazioni” del calvario parigino. Continua il racconto: “Subito dopo lo sgombero a Porte de la Chapelle – ricorda Lillo Rizzo – viene costruito un centro di accoglienza che sembra un tendone da circo, una grande tenda che può ospitare 450 persone. Diverse volte ho chiesto l’autorizzazione per poter entrare sotto il tendone, per fotografare, autorizzazione sempre rifiutata. Mi accorgo che un centinaio di ragazzi, molto giovani, secondo me minorenni, dormono fuori, sotto un ponte. Inizio a fare qualche scatto, ma soprattutto a parlare con loro, e faccio fatica a capirli perché spesso non parlano il francese, ma fanno di tutto per farsi capire. E anche qui le storie che mi raccontano sono simili a quelle che avevo sentito un paio di mesi prima. Mi raccontano che dormono fuori, in attesa di trovare un posto nel centro e soprattutto in attesa di avere documenti che consentisse loro di proseguire verso altri paesi europei. Mi dicono anche che hanno poco e niente da mangiare” Ed ecco che il racconto prende i colori della solidarietà. La gente del quartiere scende in strada per aiutarli, portano loro da mangiare, vestiti, il conforto di un sorriso, Parigi, non solo manganelli. Poi, di nuovo i gendarmi – come cantava De André – i gendarmi con le armi e con dei blocchi di cemento che piazzano sotto i ponti per scoraggiare un nuovo campo.

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“Ecco, ne ho viste tante viaggiando e fotografando le pieghe più nascoste del Mondo ma devo dirti che sono rimasto profondamente scioccato da questi enormi blocchi di pietra sotto il ponte de la Chapelle. Ciascuno, quasi due tonnellate…” Scioccato dal valore intrinseco, dalla ragione diretta, ma anche dal valore simbolico. Vietare a gente in fuga di “sostare”, di prendere il respiro per tornare a viaggiare nella speranza di trovare un Paese che dica loro: ragazzo, sei arrivato. Ora eccoti l’occasione per lavorare e costruire con noi un Paese migliore, Se ci stai, sei dei nostri. Invece, eccoli quei grandi camion carichi di massi. Li hanno scaricati e posizionati sotto il ponte con delle grosse gru. Alcune associazioni di volontari, la più attiva è La cuisine des Migrants, attraverso i social lanciano appelli per una raccolta di alimenti e riescono a garantire un pasto caldo a uomini e donne in fuga. Era inverno, faceva molto freddo, siamo nei mesi di gennaio-febbraio. I migranti vanno aumentando, saranno un 300-350 persone. I più fortunati riescono ad avere una tenda per due-tre persone, anche se ad entrarci sono in cinque, altri si coprono con dei cartoni o con delle coperte che qualcuno qui prima di loro ha lasciato. Dormono tra i grossi massi, minacciosi “schiaccianoci”. E Lillo Rizzo racconta:”Seguo uno di loro che gira per il quartiere, mi sembra che vaghi senza meta… Fotografo, mi avvicino e gli chiedo dove sta andando. Mi dice che sta cercando qualcosa che possa utilizzare come materasso, e qualcosa altro per coprirsi di notte. Un paio di volte a settimana vado al campo e faccio qualche scatto. Il numero delle persone è aumentato, e ora ci sono anche le tende sistemate alla meno peggio in mezzo ai massi. Tende distribuite da una associazione di volontari. E molto spesso metto da parte la macchina fotografica. Preferisco parlare, ascoltare, avere la loro “fotografia” del mondo. In qualche modo voglio essere fotografato, io che appartengo a quest’altra parte del mondo…Poi, mi si avvicina un giovane, mi dice di chiamarsi Abdul e che ha 21 anni, ma dall’aspetto ne dimostra 17. Mi chiede di fargli una foto, gli dico che gliela faccio molto volentieri, gli chiedo perché vuole essere fotografato e mi risponde che la vuole mandare ai suoi genitori. Hanno speso una fortuna per farlo andare via dalla Somalia, dalla guerra, dalla fame, dalla carestia. Mi dice che gli serve per far vedere loro che è arrivato sano e salvo in Europa e che si trova a Parigi. Vuole continuare il viaggio verso L’Inghilterra dove ha parenti che gli hanno garantito di farlo studiare. Lui vorrebbe iscriversi all’università, in Scienze Agrarie, e un giorno tornare nel suo Paese. Gli racconto di me, che non sono francese ma siciliano e che mi chiamo Lillo, che faccio il fotografo e lavoro per i giornali, e che per me è un brutto periodo perché comprano sempre meno foto. Gli racconto che l’unico lavoro che so fare è quello di fotografare. Lui mi ascolta ma non so se riesce a capire tutto quello che gli racconto, fa un cenno con la testa come dire: “si capisco”. Mi chiede se sono anch’io un immigrato clandestino che aspetta i documenti per mettersi in regola. Sorrido, non riesco a fargli capire come mai sono un immigrato ma non sono clandestino. E lui continua a chiamarmi “amico siciliano”. Quando sente “Sicilia” vedo che gli brillano gli occhi. Mi dice: “Li almeno avevo un posto per dormire e mangiavo tutti i giorni…”. Gli dico che mi piacerebbe documentare il suo viaggio, al suo fianco, sino a quando troverà i parenti. Sono sincero, gli dico che non posso pagargli il viaggio, voglio essere la sua ombra, ma posso raccontare la sua storia per immagini e cercare di farla pubblicare su qualche giornale europeo. Perché non è solo la “sua” storia ma è quella di decine di migliaia di persone che vivono lo stesso dramma. Lui è d’accordo, è contento, gli piace l’idea, soprattutto di proseguire il viaggio con uno straniero. E torna a chiamarmi “amico siciliano”. Fotografo poco, raccolgo molte storie”. E com’è finita con il ragazzo che voleva arrivare in Inghilterra? ” Ogni volta che vado al campo cerco Abdul…Un giorno, un ragazzo mi si avvicina e mi dice che all’alba erano arrivati centinaia di poliziotti per smantellare il campo. Fatti i controlli, hanno caricato tanti di loro su dei furgoni per l’identificazione. Li hanno portati via dicendo che lì non potevano stare perché erano minorenni. Fra di loro c’era anche il mio amico Abdul. Non mi vergogno di dire che ho pianto”. Eccolo il campo di Abdul, senza Abdul, ma con tanti altri Abdul. Il campo si è riformato, sempre in mezzo ai grossi massi. Ora hanno aggiunto tre bagni chimici. Tre bagni per cica 350 persone, donne e uomini.

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Si, pochi, Ce lo dice la puzza di urina, insopportabile. Lillo Rizzo sorride: “Le mie foto questo non possono raccontarlo…”. C’è molta promiscuità: donne, uomini, bambini che giocano e si muovono in mezzo all’immondizia. Si viaggia sulla lama pericolosa di una epidemia. “Ogni volta che torno chiedo di Abdul, ma nessuno sa darmi notizie di lui…”. Nel racconto, un racconto che nessuno ci hai mai dato: a fine febbraio sono arrivati qui, da tutta la Francia, una dozzina di “tagliatori di pietre”, per togliere i massi da La Chapelle. In un paio d’ore sono riusciti a spostare una piccola, grande montagna di pietre. Il loro lavoro è durato poco, non è bastato. Sono stati bloccati dalla polizia. Per evitare scontri hanno deciso di fermarsi. Prima d’essere allontanati hanno inciso i loro nomi su quei grandi sassi di polizia, alcune pietre le hanno trasformato in sculture, messaggi di segno diverso da quello che quei sassi avevano.

Cose mai passate in tv e nei giornali. “Ho chiamato i giornali italiani, ho mostrato le foto che raccontavano questi passaggi, ho detto loro delle tante storie raccolte…Molti non si sono neanche degnati di rispondere. Qualcuno ha risposto: “Si, il reportage è molto interessante, anche le storie, ma possiamo pagare XXX”. Il costo di una pizza per quattro persone. Ma questa è un’altra storia, la storia della scarsa considerazione, oggi, del racconto per immagini. Storia di degrado e di impoverimento del giornalismo. Ma torniamo a camminare per la Parigi affatto luminosa. ” Per un po’ non vado più al campo – racconta Rizzo – ci ritorno all’inizio di aprile, dopo aver letto che la situazione stava diventando insostenibile. Ormai sono quasi mille le persone che dormono tra i massi sperando di trovare un posto nel centro. A vigilare, a circa 200-300 metri di distanza, ci sono 3 furgoni della polizia CRS (corpi speciali antisommossa). Inizio a fotografare e a parlare con i migranti, mi dicono che sono arrivati da Calais. Mi raccontano che la polizia, da quelle parti, è molto severa: oltre a fare uso di gas, lacrimogeno e urticante, ora utilizza anche i cani, e senza museruola”. Uomini inseguiti dai cani al guinzaglio di uomini in divisa. La foto di altri tempi, i peggiori scritti dall’uomo. “Sto per andare via – racconta Rizzo – quando vengo fermato da due poliziotti in borghese. Si presentano solo mostrandomi la striscia arancione con la scritta “police”, non il tesserino. Vengo identificato, dico loro che sono un fotografo freelance e che sto lavorando sulla situazione dei migranti. Vogliono vedere le foto che ho fatto. Naturalmente mi rifiuto, il loro tono diventa aggressivo. Non parlando un francese fluido, mi mettono in difficoltà, dicendomi che mi avrebbero portato in commissariato. Per fortuna interviene un giornalista che si trovava al campo e, con modo sicuro, dice loro che stavano facendo un abuso, che lui aveva visto tutta la scena, anche il fatto che dopo avermi identificato volevano pure il mio numero di cellulare. Dicendo anche che avrebbe scritto tutto su Liberation. Il suo intervento è stato provvidenziale. Mi ha spiegato, cosa che già sapevo, che questo atteggiamento è previsto dallo stato di emergenza applicato in Francia”.

A metà maggio succede un fatto inquietante: in piena campagna elettorale, la destra organizza una petizione contro i migranti de

La Chapelle-Pajol, nel XVIII arrrondissement, sostenendo che i migranti bivaccano tra Pajol e piazza del Marché de l’Olive, e che la sera le donne del quartiere non posso uscire perché vengono molestate. Questo fa scattare la militarizzazione del quartiere: due furgoni dei CRS sono posteggiati di fronte all’uscita della metro La Chapelle e due gruppi, ciascuno dei quali formati da quattro poliziotti armati e in tenuta antisommossa, fanno avanti e indietro tra Place de la Chapelle e il Marché de l’Olive. La presenza costante della polizia più che dare sicurezza, crea tensione. Qualche giorno dopo, una manifestazione spontanea degli abitanti del quartiere, con accanto i migranti parte dal centro di accoglienza e dal campo da Porte de la Chapelle sino a Place de la Chapelle. Manifestano contro la petizione e solidarizzano con i migranti. “In realtà, il problema non sono i migranti – dice Lillo Rizzo – ma gli spacciatori che ormai da decenni hanno trasformato questa zona in luogo di spaccio di hashish, ma soprattutto del micidiale crack.” La Chapelle. Da sempre questa è una delle aree più cosmopolite di Parigi. Le etnie più presenti sono quella indiana e magrebina. E queste culture rappresentano la ricchezza del quartiere. Qui il fotografo italiano ci vive e ci lavora. Tutto il percorso fotografico di Lillo Rizzo è contrassegnato dalla migrazione.

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“Credo di essere stato uno dei primi fotografi a occuparsi dei migranti quando ancora non si sconosceva questo fenomeno che sarebbe diventato da esodo biblico direi. Ho iniziato ad occuparmi di immigrazione intorno alla metà degli anni ’80, con i primi sbarchi in Sicilia, a Lampedusa. Ricordi, nel 2004, quel mercatile della ONG tedesca Cap Anamur, quello che aveva salvato 37 migranti sudanesi nel Canale di Sicilia? Riuscii a salire a bordo del mercatile, quando si trovava ancora in acque internazionali. Per quattro giorni sono riuscito a documentare tutto quello che stava avvenendo sulla nave e come operava l’organizzazione. Dopodiché, la nave è stata bloccata a quindici miglia dalla costa di Porto Empedocle. Il governo italiano non voleva che i migranti sbarcassero. Nonostante tutto, il comandante, forzando il blocco fatto dalla Guardia costiera e dalla Guardia di Finanza, è riuscito a far attraccare la nave con i migranti a costo di farsi arrestare con tutto l’equipaggio. Ed è stato così”.

Vecchia storia che ritorna, vecchia idea che si ripropone, in una girandola di errori. Nonostante siano trascorsi quasi quattordici anni, sembra la cronaca dei nostri giorni. La storia di quella nave ha anticipato quello che sta succedendo adesso con le navi delle ONG che operano nel Mediterraneo. E allora non si capiva bene la portata che avrebbe assunto negli anni a venire questo fenomeno. Nel 2005, la copertina per L’Espresso,più il reportage al fianco di Fabrizio Gatti, bravissimo giornalista d’inchiesta. Gatti si finse clandestino riuscendo a farsi rinchiudere nel centro di prima accoglienza di Lampedusa. Il titolo di quella inchiesta, “Io clandestino a Lampedusa”. Dodici anni fa.

Parigi. Oggi i migranti che dormono sotto il ponte sono quasi 2700. La situazione è al collasso, la stampa francese non può chiudere gli occhi, inizia ad interessarsi di questa drammatica realtà. “Fotografare diventa faticoso. Continuo a sollecitare la stampa italiana, a dire cosa accade qui, ma per loro il problema non esiste. Gli inviati non ne parlano, o non ne vogliono parlare… Non lo nego, ho momenti di sconforto e mi chiedo se ha senso continuare a fare questo lavoro. ..Ma ragionandoci, mi convinco che va fatto, e io lo so fare bene, anche se i giornali non ne vogliono parlare. I giornali hanno fatto tagli sugli acquisti pagando una miseria le foto. Si fanno avanti con un compenso offensivo per il lavoro che viene svolto. Non accade solo alla fotografia, ma anche a chi scrive e lavora come freelance. Scusa lo sfogo…”. E Lillo Rizzo accende una nuova sigaretta, per chiudere un discorso doloroso ed offensivo.

Torniamo al nostro racconto. Venerdì 7 luglio, all’alba inizia l’evacuazione: 350 agenti di polizia e centinaia di funzionari della municipalità di Parigi, della Prefettura e dell’Ile-de-France iniziano lo sgombero di più di 2800 persone, tra loro molte donne e bambini. L’operazione si svolge pacificamente. In attesa dei bus, i migranti si affollano in silenzio lungo il corridoio del tram. Il traffico è stato interrotto per il tempo dell’evacuazione. Non si capisce bene dove verranno portati. Uno scarno comunicato della prefettura dice che verranno distribuiti in tutta la regione Ille de France, e i migranti che sono stati identificati in Italia saranno rispediti nei luoghi di identificazione

“All’aeroporto di Orly – racconta Rizzo – la settimana scorsa c’erano quasi duecento persone. Protestavano per l’espulsione di cinque migranti verso l’Italia dove erano stati identificati. Questa è la nuova politica francese: respingimento verso i Paesi dove avvengono le identificazioni”. Pugno duro, reprimere.

Ma il campo sotto il ponte di Porte de la Chapelle si sta nuovamente ricostruendo. Come quei campi devastati da un violento incendio. Poi, bastano poche gocce di pioggia e nel campo c’è nuova vita. I nuovi arrivati sono sempre più giovani. “Cosa farò? Intanto adesso ho imparato il francese e non succederà che non sappia rispondere alla polizia se mi ferma – risponde, ridendo, Lillo Rizzo – poi continuerò a documentare le loro condizioni. A fotografare e raccogliere storie. Preferisco stare dalla loro parte, dalla parte dei deboli. Toppo facile schiararsi con i forti”.

Stiamo in silenzio. Li guardiamo. E ‘Lillo a spezzare il silenzio:”In questi giorni ho pensato molto, non al reportage mancato, al racconto che non sono riuscito a fare con Abdul, ma a lui. Ho pensato e continuo a pensare: ma Abdul è riuscito a realizzare il suo sogno, se è riuscito a raggiungere l’Inghilterra, ad iniziare gli studi di Agraria. Voglio pensare che ce l’ha fatta”.

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