L’uomo che i nazisti a stelle e strisce hanno commemorato ad Arlington (la cittadina della Virginia che paradossalmente ospita il cimitero militare dove gli Stati Uniti celebrano i loro eroi morti in battaglia) George Lincoln Rockwell, cinquant’anni fa pagò con la vita il suo sogno di diventare il furher americano.
Una figura controversa che, però, sarebbe errato liquidare come quella di uno dei tanti epigoni falliti di Adolf Hitler, dei quali cui abbonda la storia degli ultimi 80 anni, in Europa ed altrove. Perché Rockwell non è stato un tragico e ripetitivo interprete del razzismo protagonista negli Stati Uniti sin dalla nascita del Paese, ma a suo modo cercò di instillare nei suoi compatrioti soprattutto il seme dell’antisemitismo, considerando gli ebrei il male assoluto da combattere. Un nemico che giustificava alleanze innaturali, come quella tentata col movimento nero musulmano, attivissimo nelle metropoli americane e, a sua volta, guidato da personaggi controversi, come Elijha Muhammad, capo della Nation of islam che grande peso aveva nella comunità islamica di colore.
Fidando sul modo di dire che il nemico del mio nemico è mio amico, Rockwell, fondatore del Partito nazista americano (di cui si proclamò non segretario o presidente, ma ”comandante”, come a rimarcare il suo passato militare, con tanto di medaglie al valore) ed anche dopo la morte violenta punto di riferimento per molti seguaci del suprematismo razzista, cercò di creare collegamenti con i movimenti neri che, pur lottando contro la ”dittatura” bianca , avevano anche gli ebrei come bersaglio.
Un tentativo che venne frustrato non da Elijha Muhammad – che gli consentì di intervenire al Saviour’s day, celebrato a Chicago nel 1962, con un discorso peraltro apprezzato dal capo della Nation of islam –, ma dagli attivisti musulmani neri che non accettarono che un bianco come Rockwell potesse diventare un interlocutore per loro. Un atteggiamento che fu anche di Malcolm X, che rifiutò con sdegno un tentativo di dialogo avviato con lui dal leader suprematista.
Questi tentativi sono la conferma di come Rockwell si sentisse in qualche modo investito di una missione, ma che avesse la certezza di non poterla onorare se non con l’aiuto di persone che lui ideologicamente disprezzava – i neri musulmani -, ma che potevano garantirgli un apporto numerico importante. Il comandante del Partito nazista americano era dotato di un eloquio fluente, forse non molto erudito, ma che faceva presa nella gente soprattutto del sud, che ascoltava rapita le invettive di quel uomo che incarnava anche fisicamente (alto, chiaro di capelli, elegante, una bella famiglia) il prototipo del perfetto gentiluomo virginiano.
Ma i suoi discorsi dai contenuti violenti, che riecheggiavano pericolosamente i contenuti della sua bibbia, il Mein Kampf, cominciarono a creargli dei nemici, che, come spesso accadeva ieri ed anche oggi accade, non erano sempre al di fuori della sua sponda politica.
La morte di Rockwell, assassinato a nemmeno 50 anni (secondo la giustizia americana da un fuoriuscito dalla sua formazione politica, John Patler, poi condannato a venti anni) ha segnato la fine del Partito nazista americano come possibile polo di aggregazione di quella miriade di sigle che formano il panorama suprematista bianco negli Stati Uniti. Come è giusto che sia, oggi appare impossibile prevedere cosa George Lincoln Rockwell sarebbe stato capace di fare se avesse potuto proseguire nella sua azione. Probabilmente poco o nulla, ma la morte del suo capo carismatico non fu metabolizzata presto dal Partito nazista americano che, anche oggi, a distanza di 50 anni, vive nel mito di un personaggio aritmico, capace di intuizioni interessanti, ma avevano le loro radici nella folle filosofia hitleriana.
Nazisti negli Stati Uniti: George Lincoln Rockwell, l'american furher
A suo modo cercò di instillare nei suoi compatrioti soprattutto il seme dell'antisemitismo, considerando gli ebrei il male assoluto da combattere
Diego Minuti Modifica articolo
27 Agosto 2017 - 10.52
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