Il Bangladesh e la Birmania hanno concordato un calendario per consentire, entro due anni, il ritorno in patria dei 655.000 musulmani della minoranza Rohingya che sono, nei mesi scorsi, fuggiti dai massacri per mano dell’esercito birmano.
L’accordo è stato raggiunto nel corso dei colloqui, nella capitale birmana, Naypyidaw, tra il Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri del Bangladesh, Mohammed Shahidul Haque, e il suo omologo birmano, Myint Gio. Si prevede che la prima ondata di rimpatrio riguarderà circa 30.000 persone, che verranno successivamente distribuite in 625 residenze in costruzione nel distretto di Maungdaw, nel nord dello Stato birmano dell’Arakan, da dove i Rohingya erano stati scacciati nel corso di operazioni, condotte dall’esercito, descritte da molte organizzazioni internazionali come “pulizia etnica”.
Cinque campi di transito saranno istituiti sul versante birmano del confine, dove saranno effettuate le operazioni per accertare l’identità dei Rohingya, che peraltro non vengono riconosciuti come appartenenti ad una delle 135 etnie ufficiali del Paese.
Di fatto le autorità birmane accetteranno solo coloro che riusciranno a dimostrare di avere risieduto in Birmania prima dell’esodo in massa dell’agosto dello scorso anno. Requisito difficile se non impossibile da ottenere, in quanto i Rohingya, che sono per lo più apolidi, non hanno documenti o hanno perso i titoli di residenza temporanea nel loro disperato viaggio verso ùil vicino Bangladesh.
È anche escluso che la Birmania accetti di vedere tornare centinaia di migliaia di rifugiati Rohingya che hanno languito nei campi profughi del Bangladesh per venticinque anni dopo un precedente esodo.
Secondo l’Unicef, tra i 655.000 Rohingya fuggiti in Bangladesh dall’anno scorso 379.000 sarebbero bambini.