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“Sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco…e io tremavo ancora di paura…e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura..”. Edvard Munch era ad Oslo quando elaborò “L’urlo”. Il suo travagliato e rivisitato incubo pittorico nasceva da un intimo scosso da altro, personale, in una epoca a noi lontana. Forse la visione di quello che sarebbe stato. Ma le parole che Munch scrisse per raccontare un sentimento intimo, viscerale, che lo spinse a rappresentare un urlo che poi l’umanità avrebbe adottato come simbolo di altri orrori io l’ho rivisto nell’urlo di questo bambino di Ghouta Est.
Sull’orrore che si sta spalmando su Damasco, fotocopia brutale di quella di Aleppo, è stato scritto tanto, raccontato non a sufficienza, visto quanto basta per non disturbare gli stomaci, coi tg armati di bianchetto. Ecco, l’urlo rabbioso di questo bambino dovremmo metterlo come logo delle nostre giornate, sulle scrivanie di chi dirige le redazioni, sul pc dei giornalisti chiamati a parlarcene. Ancor prima, sulle scrivanie di chi gioca partite a scacchi decisive per tutti, con l’intoccabile che ha le mani macchiate di sangue. Adottiamo questa foto, adottiamo questo bambino, adottiamone l’urlo. Le cronache a venire non ci sapranno dire se il bambino sarà riuscito a sopravvivere ai bombardamenti, il suo urlo si, vivrà, e dovrà ferirci.