Mantenersi nella Nato, avvicinarsi all’Unione Europea, ottenere ancora fondi per gestire i migranti dalla Siria e, al tempo stesso, coltivare una relazione speciale con la Russia di Vladimir Putin. Un gioco finora riuscito a Recep Tayyp Erdogan, che ha saputo sfruttare le debolezze e le incertezze dei suoi interlocutori che rendere se stesso più forte all’interno della Turchia, e questa più forte all’interno del Medioriente. Lo racconta molto bene Nicola Graziani sull’Agi. Non è un caso che l’incontro di Varna, con i vertici dell’Ue, giungano all’indomani della presa di Afrin, in Siria, e la conseguente fuga dei miliziani curdi dello Ypg.
L’ultima e la più clamorosa di una serie di iniziative militari che hanno visto Ankara utilizzare i propri militari, con sempre meno sgomento da parte della comunità internazionale, oltre il proprio confine meridionale. Un secolo fa quel confine veniva tracciato per tenere separati i turchi ex dominatori dai popoli arabi appena tornati all’indipendenza; oggi Erdogan ha realizzato il progetto enunciato nel 1991 da Turgut Ozal, quello di una riassunzione di responsabilità (parole sue) dei primi nei confronti dei secondi.
Il fatto è che quanto accaduto ad Ifrin difficilmente resterà senza conseguenze. Non si tratta solo della circostanza, di per sé sufficientemente preoccupante, che vede Erdogan promettere di andare a stanare i curdi della regione fin nei loro rifugi più sicuri. L’allargamento territoriale del conflitto potrebbe infatti sfociare in qualcosa di più grande e più grave: nella regione opera da mesi la milizia chiamata “forza di sicurezza di confine”, 30.000 uomini in maggioranza per l’appunto curdi che sono addestrati e armati dagli americani, che mantengono una presenza militare al loro fianco.
Può la Turchia, membro della Nato, permettersi uno sgarbo così grande nei confronti del suo principale alleato? Finora, in effetti, Erdogan ha evitato una provocazione così aperta, ma ha intensificato i segnali di insofferenza nei confronti degli partner europei dell’Alleanza, come quando ha impedito per settimane e settimane l’accesso alla base di Incirlik, dove operano militari tedeschi, ad una delegazione del Bundestag. E soprattutto lo scorso dicembre ha accettato di acquistare direttamente da Putin due batterie di missili S-400 terra-aria.
Al di là dell’importanza simbolica del gesto, si tratta di sistemi non integrabili con quelli Nato, che dovranno essere istallati e gestiti da personale russo. Russo, su suolo turco, e sotto un cielo solcato dai caccia F-35 di nuova generazione: qualcosa di impensabile pochi anni fa. Putin, che attraverso la crisi siriana ha riportato Mosca ad avere un ruolo centrale in Medioriente dopo quasi trent’anni, segna un nuovo punto a suo favore. E non si tratta di acquisizioni di pura facciata: a Washington già si preoccupano che la presenza russa all’interno delle strutture militari turche possa portare il Cremlino ad avere accesso ad una grande quantità di dati, altrimenti riservati.
Circostanze vissute con preoccupazione anche in Europa: i confini della Nato e dell’Ue tendono a sovrapporsi. E talvolta anche le due politiche estere, come nel caso della crisi diplomatica scatenata dall’avvelenamento dell’ex spia russa Skripal. E anche quando gli interlocutori europei sono più attenti alle esigenze russe, intervengono altri fattori a complicare le relazioni con la Turchia: è quello che accade con la Grecia: Erdogan, ancora a dicembre, è stato in visita ufficiale ad Atene. Ottimo: niente di avvicinabile accadeva dal ’52. Ma la trasferta alla fine è servita solo per constatare che su Cipro non c’è accordo, che le isole Kardak-Imia nell’Egeo continuano ad essere spopolate e contese, che i Trattati di Losanna del 1923 sono da rivedere per la Turchia, ed intoccabili per Atene.
Al di là dei rapporti bilaterali con la Grecia, sono i rapporti con l’Unione nel loro insieme ad essere problematici. I negoziati per l’adesione della Turchia ristagnano da anni, e non sono certo facilitati dalla repressione scatenata da Ankara dopo il fallito golpe di due anni fa. Bruxelles cerca una soluzione alternativa all’ingresso a pieno titolo, e propone una serie di vie d’uscita onorevoli. Ma Ankara l’ammissione a pieno titolo ha chiesto, e l’ammissione a pieno titolo pretende.
E poi, a complicare ulteriormente le cose, c’è la faccenda dei migranti. La scorsa settimana la Commissione Europea ha dato avvio ufficialmente all’erogazione di una nuova tranche di 3 miliardi di euro in favore di Ankara per affrontare l’emergenza dei profughi dalla Siria. Ma da una parte i partner europei hanno avviato le schermaglie per decidere chi tra loro si accollerà il peso del finanziamento; dall’altra Erdogan calcola che lui non di 3 miliardi di euro ha bisogno, ma di 30, ogni anno. Quanto poi a chi abbia giurisdizione sulla gestione dei fondi, la partita è bene aperta. Così come è ancora aperta, un secolo dopo, la partita di fondo: a quale mondo appartenga la Turchia, impero inquieto tra due continenti.
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