Il Toro non smette di versare lacrime: dopo Beppe Bonetto, il grande direttore generale artefice dell’ultimo scudetto granata (1975-76), dopo l’indimenticato Emiliano Mondonico, dopo l’ultimo sopravvissuto del Grande Torino, Sauro Tomà, il popolo granata piange adesso Gustavo Giagnoni: perle d’un interminabile rosario. Ma il Toro è in buona compagnia, a salutare con il lutto nel cuore il tecnico sardo ci sono anche le tante squadre da lui allenate in 25 anni di carriera, a partire dall’amato Mantova: Milan, Bologna, Roma, Pescara, Udinese, Perugia, Cagliari, Palermo, Cremonese.
Per ricordare Giagnoni la stampa è ricorsa all’immagine univoca “dell’allenatore col colbacco”. Strano destino per un uomo schivo, grondante dignità, lontano anni luce dalla vanitas modaiola così diffusa nel calcio e nella vita d’oggi. Il colbacco Giagnoni lo indossava dai tempi di Mantova (“Me lo aveva regalato un tifoso mantovano che li importava dalla Lapponia: ai primi freddi lo misi anche a Torino e fu il finimondo”), ma a Torino divenne un simbolo identitario, come la sciarpa granata sempre al collo e l’immancabile sigaretta tra le labbra quando si sedeva in panchina.
Lo si ricorda poi per il pugno sferrato a Franco Causio, in un derby infuocato che la divinità Eupalla mise in scena il pomeriggio del 9 dicembre del 1973. Proprio lui, uomo sì fumantino ma non violento, comunque rispettoso dell’avversario. Ma quelli erano anni particolari, nello stadio Comunale giungevano le roventi raffiche della protesta che infiammavano la città, delle lotte sindacali e dei primi vagiti d’una violenza politica sempre più pervasiva. Quelli di Torino erano derby di fuoco: da una parte l’aristocratica Juventus del padrone Agnelli, per riffa o per raffa sempre vincente, dall’altra l’impetuosa compagine granata, che dopo oltre vent’anni di anonimato in seguito alla tragica scomparsa della squadra delle meraviglie riprendeva finalmente a lottare alla pari con le grandi. Era quindi fatale che persino i campioni da quegli spifferi arroventati fossero scossi, e quando Franco Causio dopo il vantaggio juventino sfilò davanti alla panchina granata sbeffeggiando l’allenatore del Toro, l’imbufalito Gustavo, che aveva già avvertito l’ala juventina che lui certi atteggiamenti non li tollerava, s’alzo di scatto e rinverdendo i fasti d’atleta raggiunse d’un balzo il “Barone” e l’abbatté con un pugno in pieno viso. Un clamoroso caso di lesa maestà: apriti cielo. Ma il popolo granata lo accolse come un eroe: malgrado la sconfitta, dopo la partita fu portato in trionfo. Giagnoni però era un uomo per bene, si pentì subito della reazione istintiva, subì con malcelato imbarazzo l’onore tributatogli e passò una vita a ripetere che non andava certo fiero di quel gesto. Lui del resto era fatto così, con quel carattere sanguigno intollerante alle bambinate, alle prese per i fondelli, perché in quei momenti, ammetteva, “mi si chiudeva la vena e sragionavo”. Insomma un uomo all’antica, tutto d’un pezzo.
Sì, strano destino essere ricordato per quell’episodio increscioso. Perché dopo una vita dedicata allo sport, come calciatore e come allenatore, cioè forgiatore di uomini prima che di atleti, è quantomeno riduttivo essere marchiato in quel modo. Ma si sa, l’immaginario collettivo ha le sue regole, si nutre di sintesi e di simboli, e lui con quel pugno aveva incarnato il mito di Davide contro Golia, era assurto a emblema dell’uomo qualunque che sfida i potenti, i padroni del sistema-calcio.
Immagino invece che a Gustavo farebbe piacere che di lui si raccontasse altro. Ad esempio l’estrema serietà dell’uomo, l’integrità morale quasi sacerdotale (in effetti la mamma lo sognava prete e l’aveva iscritto in Seminario), la professionalità di questo figlio di Olbia, che della sua terra aveva tutta la straordinaria carica umana. Basta ascoltare i ricordi commossi che ne conservano i “ragazzi” con i quali ha calcato i campi di gioco e ha allenato in giro per l’Italia per quasi mezzo secolo. Da quelli polverosi dell’oratorio, dove lo raccolse Gino Colaussi, per portarlo all’Olbia. Ne aveva gran stima, la leggendaria ala sinistra della Nazionale italiana campione del mondo nel 1938, diceva che quel giovane “aveva la dote rara di posizionarsi in campo nel modo più utile alla squadra”: un complimento non da poco. Poi il ragazzo lasciò l’isola natia e sbarcò a Reggio Emilia, prima di trasferirsi a Mantova, sua città d’elezione dove si stabilì a 25 anni. E fu una grande cavalcata: trecento presenze tra le fila biancorosse, a puntellare la difesa col suo acume tattico e la caparbietà del lavoratore a cui nessuno ha mai regalato niente, con tre promozioni in quattro anni, sino al debutto in A, guarda il destino proprio contro la squadra che ai suoi occhi incarnava il sopruso dei forti sui deboli: la Juventus. Era il 27 agosto 1961, e la provinciale Mantova impattò 1 a 1 a Torino. “Nemmeno me ne accorsi” avrebbe poi raccontato, “Furono quattro anni incredibili”. Una squadra che lasciò il segno, con Edmondo Fabbri in panchina: per il calcio spumeggiante che produceva, il Mantova fu ribattezzato il “piccolo Brasile”, e a rendere suggestivo il confronto contribuiva certo anche la seconda maglia, gialla e verde come quella della mitica Seleçao. Poi un anno alla Reggiana, quindi Giagnoni tornò all’ovile, dove conseguì un’altra promozione in A, nel 1966. Due anni dopo attaccò le scarpette al chiodo, col bottino di 141 presenze in serie A. Aveva 36 anni suonati e dalle università si levavano i venti d’una protesta epocale.
Per Gustavo iniziò una nuova vita, i dirigenti gli affidarono le giovanili: quell’uomo aveva davvero la testa sulle spalle, sapeva insegnare la vita oltre che il calcio. Appena un anno e si ritrovò ad allenare la prima squadra. A Torino arrivò nel 1971, accolto dal freddo scetticismo d’un ambiente che dopo quasi un quarto di secolo stentava a elaborare il lutto d’una perdita mostruosa. E lì, a nemmeno quarant’anni, germogliarono le qualità umane e caratteriali che tramutarono l’indifferenza e la sfiducia in amore sconfinato, orgogliosa passione e imperitura stima. Da uomo fattosi da sé e forgiatosi nelle difficoltà, seppe fare di necessità virtù, assecondando la carica di agonismo represso e la volontà di riscatto che si respirava nell’ambiente e mutandolo in un atteggiamento aggressivo e intransigente. Fu con lui in panchina, e in campo guerrieri come capitan Ferrini, Agroppi, Cereser, Fossati, Mozzini, Rampanti, Bui che si delineò il cosiddetto “tremendismo” granata, una squadra che gettava l’anima oltre lo steccato, lottando e schiumando senza arrendersi mai. Insomma, un capolavoro d’intelligenza. E così sotto la sapiente guida di Giagnoni i granata ritrovarono la propria identità smarrita. Non era una questione di tecnica, lui non era un invasato degli schemi e della strategia. Badava al sodo, non interpretava il calcio come una scienza astrusa e complicata, ma ai suoi ragazzi chiedeva la sana dedizione ad una tattica essenziale, e soprattutto cuore, sacrificio, abnegazione, massimo impegno nelle gare ufficiali come negli allenamenti. Ed ebbe indubbi meriti, poiché lanciò quell’ira di Dio di Puliciclone, al secolo Paolino Pulici, e fece da chioccia ad una generazione di talenti, a cominciare dal purosangue Claudio Sala, che, con gli opportuni innesti, esploderanno qualche anno dopo conquistando l’agognato scudetto nella stagione 1975-76.
Così, alla prima stagione, l’uomo col colbacco rischiò di vincere lo scudetto: il Toro finì secondo a un punto dai cugini, insieme al Milan. Anno calcisticamente losco, quel 1971-72, con una serie di episodi eufemisticamente dubbi, in un modo o nell’altro sempre favorevoli alla Vecchia Signora: il gol annullato ad Agroppi in un famigerato Sampdoria-Torino, il rigore negato al Milan contro la Juventus (con tanto di plateale ammissione dell’errore fatta da Concetto Lo Bello alla Domenica Sportiva). Ma come disse anni dopo Giagnoni, “con una Juventus iperfavorita dagli arbitri c’è poco da fare. E’ sempre così, ogni tanto giocano in dodici”. Non le mandava a dire il Gustavo, soprattutto quando l’indignazione dell’uomo retto tracimava davanti al sopruso. E ne pagava le conseguenze, fu infatti squalificato per un mese per le sue critiche alla classe arbitrale. Del resto la pensava così anche Gianni Rivera, che dopo l’ennesimo oltraggio sportivo (un rigore inesistente concesso al Cagliari in zona Cesarini, con relativa sconfitta della propria squadra) esternò con i giornalisti la rabbia e la frustrazione accumulate durante quella torbida stagione accusando i vertici dei designatori arbitrali, ritrovandosi squalificato per tre mesi, fino al termine del campionato. Perso per un punto.
A Torino Giagnoni diede il meglio di sé, fondendosi con i suoi uomini, con i tifosi, con un’intera città. Il suo modo di intendere lo sport era simbiotico con i rapporti umani, credeva in un calcio identitario e passionale. Tentò poi il gran salto con il Milan, dopo aver pianto per il licenziamento comminatogli dal presidente Pianelli (che in seguito ammise di aver commesso il suo più grande errore professionale), ma l’esperienza finì male. Sedette su tante panche, una decina, tra cui quelle del Bologna e della Roma, per concludere la carriera nell’annata 1992-93, naturalmente nella sua Mantova. Ma prima dell’addio visse ancora un paio di momenti memorabili. Il primo, il 29 aprile del 1987, quando il suo Cagliari, allora in serie B, pareggiò 2-2 a Torino con la Juventus eliminando ai quarti di Coppa Italia la squadra di Platini. Fu una grande rivincita, dopo quello scudetto scippato, oltre che un piacere estremo. L’altro, nella stagione 1990-91: nel febbraio del 1990 rilevò Tarcisio Burnich sulla panchina della Cremonese, e riuscì nell’impresa di riportare in serie A una squadra infognata a metà classifica.
Ci piace ricordare l’indimenticabile Gustavo con le parole del suo collega Gianni De Biasi, che nel 2005, appena ingaggiato dal Torino, lo indicò come suo modello: “Mi ispiro a Giagnoni. Ho imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo a Palermo, quando sono stato suo giocatore: stagione 1983-84. Il mister amava il dialogo e il confronto con i suoi giocatori, era sanguigno e irascibile, come credo di essere io. Giagnoni non scendeva a compromessi, era genuino ma sapeva farsi rispettare: una figura vecchio stampo, tuttavia penso che certi valori non passino mai di moda”.
Addio, Gustavo, uomini come lei mancano molto a questo sport. Anzi, a questa società.