La Serbia ricorda i 20 anni dalle bombe della Nato che fecero strage di civili
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La Serbia ricorda i 20 anni dalle bombe della Nato che fecero strage di civili

Il 24 marzo del 1999 la Nato partì con i bombardamenti che misero in ginocchio il regime di Milosevic ma che provocarono morte e distruzione e che alcuni chiamano 'l'ultimo grande crimine del XX secolo'

Un mutilato davanti a un monumento ai caduti
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24 Marzo 2019 - 15.33


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Sono passati 20 anni dall’inizio dei bombardamenti Nato per la guerra del Kosovo e oggi la Serbia ricorda il triste anniversario con una serie di cerimonie commemorative per le vittime, a più importante delle quali, alla presenza del presidente Aleksandar Vučić e della premier Ana Brnabić, in programma questa sera a Niš, nel sud del Paese, una delle città più pesantemente colpite dalle bombe Nato.
La sera del 24 marzo del 1999, su ordine del generale Javier Solana, scattarono i primi bombardamenti ad opera dei cacciabombarideri Nato partiti dalla base di Aviano e si conclusero solo il 9 giugno, dopo 78 giorni che causarono la morte di 2500 persone.
Un intervento militare deciso, senza il mandato Onu e dopo vari tentativi negoziali in sede diplomatica, con l’obiettivo, definito ‘umanitario’, di indurre il regime dell’allora uomo forte Slobodan Milošević a porre fine alle repressioni e alla pulizia etnica in Kosovo e al ritiro delle truppe serbe da quel territorio.

Belgrado ha sempre contestato la legittimità dei bombardamenti alleati, definiti ancora oggi una «brutale aggressione militare» contro uno stato sovrano europeo, condotti senza mandato delle Nazioni Unite e contro ogni principio del diritto internazionale, mentre al contrario Pristina parla di intervento sacrosanto, che ha contribuito alla ‘liberazione’ del Kosovo, e ringrazia per questo i Paesi Nato, amici e alleati, primi sostenitori dell’indipendenza proclamata poi dal Kosovo il 17 febbraio 2008.

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Se a Pristina l’anniversario si celebra in una atmosfera di festa e soddisfazione, a Belgrado prevale il dolore e si commemorano le migliaia di vittime, ricordando il terrore delle bombe e le immani distruzioni che misero il Paese in ginocchio. Nella capitale sono ancora visibili i segni delle bombe e dei missili con edifici sventrati lasciati a futura memoria.
Una ‘azione umanitaria’ si trasformò in ‘catastrofe umantaria’ – sostengono i dirigenti serbi, e oggi il ministro della difesa Aleksandar Vulin, in un intervento sul quotidiano Vecernje Novosti, definisce i bombardamenti di 20 anni fa «l’ultimo grande crimine del del 20/mo secolo», mentre all’unisono la dirigenza di Belgrado sostiene che l’intervento militare della Nato non ha raggiunto il suo obiettivo di risolvere la questione del Kosovo. Un territorio, si sottolinea, dal quale furono espulsi 200 mila serbi e non albanesi, ancora caratterizzato da forte instabilità e discriminazioni nonostante il dialogo che va avanti da anni tra Belgrado e Pristina.

L’indipendenza del Kosovo oltre che da Belgrado, Mosca e Pechino non è riconosciuta da numerosi altri Paesi occidentali compresi cinque stati membri di Ue e Nato (Spagna, Grecia, Romania, Cipro e Slovacchia). Sui media si sottolinea in particolare il carattere definito ‘odioso’ e ‘offensivo’ della locuzione ‘danni collaterali’ adottata dai comandi Nato nella primavera 1999 per giustificare le vittime civili e la distruzione di scuole, ospedali, ponti e strade in Serbia. Oltre ai danni sull’ambiente e sulla salute dei cittadini a causa dell’uranio impoverito contenuto negli ordigni sganciati dai bombardieri Nato. Una apposita commissione d’inchiesta ha stabilito che i bambini nati in Serbia tra il 1999 e il 2015 sono risultati più vulnerabili allo sviluppo di malattie tumorali.

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