di Stefano Miliani
Nelle isole greche di Lesbo e di Samos, nell’Egeo orientale a due passi dalle coste turche, si riversano rifugiati e profughi in fuga da guerre e fame. Mentre buona parte dell’Europa finge di non sapere e non guarda, quei profughi sono costretti a stazionare fino a più anni nei centri di raccolta, in un nulla senza via d’uscita alienante, prima di ottenere una risposta alle loro domande d’asilo politico. C’è invece chi agisce. Nelle due isole la Comunità di Sant’Egidio, con un gruppo di mediatori culturali, ha organizzato dal 20 luglio scorso fino al 31 agosto corsi di inglese e laboratori di animazione e altre attività tenuti da 150 volontari i quali passano così le loro vacanze.
Per la Comunità parla, da Lesbo, Monica Attias, ricercatrice in relazioni e cooperazione internazionale presso l’Istituto nazionale di statistica – Istat, autrice tra l’altro del libro Racconti di pace in Oceania (Urbaniana University Press).
Come è nata la vostra iniziativa?
Alla fine del marzo scorso il fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi è andato con una delegazione della Comunità a vedere cosa succedeva a Lesbo perché, con la chiusura del progetto di relocation dell’Unione Europea, i numeri dei profughi cominciavano ad aumentare. Le persone restano incastrate nelle isole e non possono proseguire nel viaggio, solo una piccola parte riesce ad andare ad Atene.
Perché?
Sia perché i centri di accoglienza della Grecia continentale sono piuttosto saturi e non ci sono abbastanza posti, sia perché l’iter che permette di lasciare le isole è difficile: non tutti riescono a ottenere la “carta blu” che consente di lasciare l’isola. Siamo partiti dal constatare una situazione esplosiva e ci siamo chiesti come essere presenti in questo luogo di dolore.
Sono vacanze solidali? E dove?
Per adesso sono vacanze che speriamo di rendere più strutturate. A Samos siamo presenti nell’hot-spot di Vathi, la città principale, e a Lesbo siamo attivi nei campi di Moria e di Kara Tepe.
Quanti sono a oggi i rifugiati?
Circa novemila a Lesbo e 4250 a Samos. In campi concepiti per numeri di gran lunga inferiori. Chi arriva oggi a Samos non trova nemmeno una tenda. I campi si estendono oltre le mura dell’hot-spot stesso. Soprattutto a Samos c’è una parte informale chiamata la “giungla” dove si improvvisano rifugi con teli, coperte, senza servizi igienici, senza acqua: chi è nella “giungla” deve arrampicarsi su una collina per trovare un tubo dell’acqua. Sia per bere che per lavarsi. Viene distribuito un litro mezzo al giorno a persona. È una delle emergenze maggiori. Chi è arrivato nell’ultima settimana non ha trovato nemmeno le coperte e molti si sono accampati al bordo della strada sui cartoni.
La vostra risposta qual è?
La nostra risposta è essere presenti qui con volontari dall’Italia e da altri paesi europei: rispondere ai bisogni materiali, i primi sono il cibo, l’acqua, le tende ma soprattutto aiutare a non perdere la speranza: per accedere ai servizi del campo i profughi devono fare file di quattro cinque-ore e sono persone vulnerabili, provate dal viaggio e dalla violenza.
Agite in accordo con le autorità greche?
Sì, abbiamo stabilito un rapporto con il Ministero dell’Immigrazione; dopo le elezioni il Reception and identification service è stato assorbito dal Ministero per la Protezione dei cittadini.
Cosa insegnate?
Abbiamo visto che un bisogno emergente è la comunicazione per cui facciamo corsi di inglese, che è una lingua veicolare. Altre organizzazioni insegnano il greco ma l’inglese è per tutti, inoltre qualcuno desidera andare in altri paesi. Nella prima visita abbiamo trovato in una tenda ragazzi appena maggiorenni che dopo un viaggio terribile studiavano da soli l’inglese con le torce tascabili: da lì ci è venuto il desiderio di sostenere il loro impegno. È anche un discorso di dignità: in condizioni terribili non si rinuncia a studiare.
Oltre all’inglese cosa insegnate?
L’educazione alla pace con i bambini, l’arte nelle visite ai musei, la cucina alla maniera italiana e allo stesso tempo impariamo a cucinare piatti afgani, siriani. Non distribuiamo solo cibo ma facciamo un “Ristorante dell’amicizia” : solo a Lesbo tutte le sere prepariamo 600-700 pasti; come in un ristorante non si fa la fila ma si viene serviti e si mangia tutti insieme. I profughi stessi si sono offerti come volontari, alcuni fin dal primo giorno: ci aiutano tutti i pomeriggi a preparare il cibo, ad accogliere le persone e nella festa… perché si finisce sempre con musiche e balli dei vari paesi. È l’eredità che lasciamo loro: la speranza di non venire schiacciati dalla propria condizione ma aiutare se stessi e gli altri.
Il 31 agosto l’esperienza finisce. Dopo?
Non li lasceremo soli. Abbiamo migliaia di persone da aiutare con i documenti e il sogno si possa riaprire la relocation verso paesi dell’Europa per decongestionare i campi. Ci vuole più solidarietà da parte dell’Europa.
Avrete trovato molte situazioni difficili.
Tantissime persone sono vulnerabili. C’è un ragazzo iracheno con la sclerosi multipla in carrozzina in una tenda, c’è una famiglia afghana di etnia hazara con tre figli malati che siamo riusciti a far trasferire ad Atene. Centinaia sono i minori non accompagnati.
Da dove vengono i profughi di Lesbo e Samos?
Un 60% dall’Afghanistan. Molti sono siriani ma meno che in passato: per loro il riconoscimento della protezione internazionale è più veloce e forse rimangono meno a lungo di altri. Quelli che rimangono di più sono gli africani: camerunesi, congolesi, in continuo aumento. Chi arriva oggi farà l’intervista per la protezione internazionale nel 2021.
Inevitabile chiederle come valuta la politica dei respingimenti e dei porti chiusi dell’ex ministro dell’Interno Salvini.
Come Comunità di Sant’Egidio siamo chiaramente in favore dei salvataggi in mare e per il diritto a migrare: bisogna creare vie legali e sicure non solo per i rifugiati ma anche per i migranti. Il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres ha parlato della migrazione come un fenomeno positivo.
Tornando alla Grecia, va però detta anche un’ultima cosa, importante.
Dica.
Il rapporto con i greci. Abbiamo fatto iniziative pubbliche a Samos e Lesbo per ricordare chi è morto in mare e hanno partecipato anche molti turisti e molti greci. I greci hanno vissuto una grande stagione di solidarietà che non va dimenticata, anche se col tempo diventata con il tempo più difficile da sostenere perché l’emergenza si è protratta per anni. Ma la solidarietà è contagiosa. L’altro giorno siamo andati con dei minori non accompagnati al mare. Vedendo questi ragazzi, in costume come tutti gli altri, che si divertivano in modo giocoso i presenti sono rimasti toccati e il proprietario è venuto da noi per offrire una serata speciale per loro nel suo stabilimento.