“Io sono stato fortunato, ma sono anche la dimostrazione che gli immigrati, quando ne hanno l’opportunità e quando sono trattati con umanità, sono una risorsa: per me l’Italia oggi è tutto, è la mia terra santa”. In un’intervista a la Repubblica, Syed Hasnain, 30 anni, rifugiato afgano, figlio di un capo talebano morto nella jihad, racconta la sua incredibile storia di “sopravvissuto” nel giorno del traguardo più ambito, quello della laurea in Scienze politiche e relazioni internazionali a La Sapienza di Roma.
Syed Hasnain dice infatti di essere “figlio di un comandante talebano morto per Allah e il mio destino era diventare anch’io un martire” se solo la madre Sediqa “non avesse trovato il coraggio di ribellarsi al destino” quando lui aveva dieci anni e un uomo che si era recato a casa per dare loro la notizia della morte del padre, gli fece capire che “ormai sei grande, tra un po’ toccherà a te partire”.
Nel corso del racconto il ragazzo dice di poter affermare di “essere nato per la seconda volta a 10 anni, quando mia madre mi mise in salvo sottraendomi a quello che sarebbe stato il mio destino: combattere con i talebani e probabilmente morire come è stato per mio padre e un mio fratello maggiore. E dire che per me, bambino – sottolinea Syed Hasnain – era bello e normale essere chiamato a combattere. Quello avrei voluto fare anch’io a 10 anni. E invece mi ritrovai improvvisamente da solo in Pakistan nel giro di poche ore”.
Nato a Lashkargah, nel sud dell’Afghanistan, da una famiglia Pashtun, il padre di Syed era un comandante delle milizie talebane, “uomo molto rigido e temibile, tutto preghiera e combattimento, pronto a morire per la jihad, due mogli e nove figli”, dice il ragazzo, che aggiunge: “Mia madre, la sua seconda moglie, però è di etnia hazara e questo rendeva le cose complicate: io ero il penultimo figlio”. Così quando un giorno bussarono a casa sua due uomini con una lunga barba e i mitra, “alle due mogli di mio padre dissero: ‘È andato in paradiso, da bravo martire di Allah’. E lì cominciò a cambiare la mia vita” ricorda oggi il ragazzo che racconta che i fratelli maggiori partirono subito per combattere.
“È così che funziona in Afghanistan. Se muore il padre devono andare i figli maschi. Ricordo che assistetti alla loro vestizione da soldati di Allah, ero affascinato. Mia madre invece era angosciata. Lei aveva avuto tre figli tutti maschi da mio padre e non voleva altri eroi. Ma mio fratello maggiore, Shahsawar, dovette partire e non tornò più dalle montagne” ricorda Syed che racconta la sua odissea di quando fu arrestato in Pakistan senza documenti e fu rimandato in Afghanistan dove ha poi deciso di mettersi in viaggio verso l’Europa dove dopo lunghe peripezie ha presentato richiesta di asilo in Italia e ha cominciato a studiare. Fino ad oggi, giorno della laurea.