La Lazio fa 120 anni e vi spiego cosa sia la lazialità
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La Lazio fa 120 anni e vi spiego cosa sia la lazialità

Una parola inventata da Michele Plastino e diffusa da Guido De Angelis, due comunicatori del mondo Lazio

Silvio Piola
Silvio Piola
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Giancarlo Governi Modifica articolo

8 Gennaio 2020 - 10.19


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Lazialità, una parola magica che riesce a dare l’idea di tutto un mondo che c’è dietro una società sportiva, come passione, come memoria e anche cultura. Una parola che non è applicabile ad altre società. Infatti la AS Roma non può usare la parola “romanità” perché si riferisce a tutta la Città e non può riferirsi a una squadra di calcio, per la quale si dovrebbe dire casomai “romanistità”, ma nessuno si è mai azzardato. Tanto meno possiamo parlare di “interinità” o “milanistità” o “juventinità”… insomma c’è Lazialità e basta.
Una parola inventata da Michele Plastino e diffusa da Guido De Angelis, due comunicatori del mondo Lazio, che dà l’idea del patrimonio di storia, di affetti e di memoria che si tramanda di generazione in generazione.
La lazialità non mi è stata trasmessa da mio Padre, che non conosceva e non amava il calcio, però da lui ho avuto la possibilità e la libertà di coltivare la mia passione.
Ma sono stato io a trasmetterla a mia moglie Rossana e ai miei figli e loro l’hanno trasmessa a mio nipote Pietro.
Ho visto passare presidenti, tecnici e soprattutto giocatori, a cominciare da quelli che infiammarono la mia passione di bambino, come i fratelli Sentimenti per continuare con Lovati, con gli eroi dello scudetto del 1974, e poi gli eroi del meno nove, fra tutti Fiorini, autore del gol che ci mantenne in vita, e Poli autore del gol che ci tenne in paradiso. Il talento puro di Bruno Giordano con cui avevo in comune la formazione trasteverina. Fino alla squadra meravigliosa messa in piedi da Cragnotti che portò la Lazio sul tetto del mondo calcistico.
Quando ero bambino mio Padre mi regalò un distintivo della Lazio che io portavo sull’occhiello della giacchetta con tanto orgoglio. Fui colpito dall’aquila e anche da quel 1900, un anno importante perché era l’inizio del secolo e perché era l’anno in cui era nato mio Padre. E poi quei colori, che danno serenità, i colori del cielo e i colori della Bianchi, per la quale correva e vinceva il mio idolo di allora, il Campionissimo Fausto Coppi. Seppi dopo che erano i colori della Grecia, che Bigiarelli e i suoi compagni scelsero perché in là erano nate le Olimpiadi, durante le quali i giovani di tutti i popoli in guerra deponevano le armi per affrontarsi nella corsa, nella lotta, nel salto e nel lancio. Capii dopo che i padri fondatori avevano scelto quei colori perché inseguivano un loro ideale di universalità, di pace e di progresso che furono alla base delle più antica e più importante polisportiva d’Europa, e quindi del mondo. Capii che Bigiarelli e compagni inseguivano un ideale di progresso e di giustizia sociale, anche dalla scelta dello sport che praticavano e del luogo dove si riunirono per fondare la Lazio: da Piazza della Libertà, un nome che evocava il principale ideale umano, loro podisti, lo sport dei proletari, potevano sfidare i canottieri, che praticavano lo sport più ricco. Sono sicuro che i nove fondatori si posero a Piazza della Libertà sulle rive del Tevere, a mo’ di sfida.
“Concordia parva crescunt”, è il motto latino che completa le insegne laziali: “Con la concordia crescono le piccole cose”.
Fin da piccolo ho capito, che scegliendo di essere laziale, avevo scelto di appartenere a una minoranza, a una élite, cosciente e orgogliosa di essere tale, nella fortuna e nella tragedia, nella vittoria e nella sconfitta. Ma una élite civile che aborre la violenza, il razzismo e l’inciviltà.
A mio nipote Pietro, l’ultimo dei laziali della famiglia Governi, ho insegnato che il laziale deve prima saper accettare le sconfitte, perché soltanto così saprà godere delle vittorie.
Non ho mai scritto di Lazio in termini professionali, perché ho sempre voluto preservare la parte privata di questa mia passione e ho cercato sempre di parlare di Lazio con gli “occhi aperti”, cercando di capire e di far capire che il calcio non è la cosa più importante della vita ma che può avere un senso soltanto se appartiene alle cose belle ma non fondamentali.
Tre persone mi hanno aiutato a far maturare e crescere la mia lazialità: Antonio, un giovanotto, nostro vicino di casa a cui mio Padre mi affidava da bambino per essere accompagnato allo stadio; Livio Jannattoni, un grande studioso di Roma, il quale mi disse che, quando lui era ragazzo e incominciò a interessarsi di calcio, a Roma c’era soltanto la Lazio; Mario Pennacchia, il primo studioso della Lazio sui cui libri ho formato la mia cultura laziale. Una volta una persona mi chiese “come fai a sapere tutte queste cose?” “Facile” risposi “ho letto i libri di Mario Pennacchia”.
Li ringrazio tutti e tre.
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