“Vivere una sola vita/ in una sola città/ in un solo Paese/ in un solo universo/ vivere in un solo mondo/ è prigione”. Sono i versi che aprono una poesia africana, “Prigione” di Ndjok Ngama, forse la sua più nota composizione.
Ai più che non la conoscono suggerisco di leggerla per intero perchè rappresenta quel che si consuma di questo nostro mondo che privilegia muri e separazioni. Ci pensavo, e sono andato a rileggerla, alla notizia della morte straziante del bambino arrivato assiderato all’aeroporto parigino, provando l’impresa impossibile di lasciare il suo Paese, la Costa d’Avorio, per l’Europa, nascondendosi nel carrello di un aereo. Impresa impossibile, soprattutto per un bambino. Minuto e per questo favorito nel ricavarsi uno spazio impossibile a ridosso delle ruote, minuto e per questo fragile, corpo sacrificale offerto dall’ingiustizia all’inattaccabile legge criminale che separa il Nord e il Sud del mondo.
Scrivo oggi queste poche righe dopo aver fatto un bilancio dell’eco che questa tragica e straziante notizia ha avuto nelle coscienze e nei media di questa nostra parte del mondo, nella nostra Italia in altre faccende affaccendata.
L’eco mi è apparsa debole, quasi dovuto, con una punta di fastidio nel dovere condividere una storia scioccante, che disturba, che ci mette sotto accusa. Accusa anche i nostri atteggiamenti, le nostre riserve, le nostre prudenze, la nostra misura. Ci sono passaggi del percorso dell’umanità, ci sono storie e “foto” che segnano, meglio dovrebbero segnare fortemente, a fondo, il nostro pensare e il nostro vivere.
Penso a quelle lontane nel tempo, al bambino che nella folla di un campo di concentramento nazista mostra il numero impresso sul suo braccino; penso alla bambina nuda che, bruciata dalle radiazioni, lascia l’area dell’esplosione della bomba atomica che fece strage di uomini con la scusa di risparmiare vite umane alla guerra. E penso a foto più recenti, come quella del bambino faccia nella sabbia, morto su una delle spiagge degli approdi di chi ha provato a scappare da fame e guerra. Penso alla foto impossibile di un altro bambino, quello morto nel Mediterraneo con la pagella cucita addosso, per presentarsi, bravo e voglioso di scrivere il futuro, a chi avrebbe dovuto accoglierlo, non lasciarlo morire. Penso a queste e a tante altre “istantanee” del tempo passato e del nostro tempo, fino all’immagine non vista del bambino di Parigi, irrigidito da meno cinquanta mentre tentava l’impossibile.
Quel bambino meritava e merita una scossa civile diversa dalla nostra timida registrazione dei fatti. Storia breve, veloce ad essere risucchiata dagli archivi se non dall’oblio. Chi conosce il mondo dal quale fuggiva? Chi conosce le ragioni della fuga? La Costa d’Avorio non è un Paese povero, sentivo e leggevo ieri. Si, caffè e tant’altro, fino ad arrivare ai diamanti. Solo che qui come in tanti altri posti del mondo la ricchezza ( il diamante sembra il logo ricco dell’inverso ) è sempre per pochissimi, e la povertà, il lavoro nero e la fame per tanti. Come la prigione facile, non quella metaforica della poesia, ma reale e dura, come reali e dure sono le prigioni del Paese dal quale il nostro piccolo fuggiva. Volando, per un pò vivo e libero, come un grande uccello africano abbattuto dai cacciatori di frodo che scrivono le regole del mondo.
Quel bambino che ha spiccato il volo per uscire dalla prigione della povertà
Scrivo oggi queste poche righe dopo aver fatto un bilancio dell'eco che questa tragica e straziante notizia ha avuto nelle coscienze e nei media di questa nostra parte del mondo, nella nostra Italia in altre faccende.
Onofrio Dispenza Modifica articolo
9 Gennaio 2020 - 14.31
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