Iraq, la rivolta in uno Stato fallito divorato dalla corruzione
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Iraq, la rivolta in uno Stato fallito divorato dalla corruzione

Proseguono le manifestazioni: tra le richieste rimaste inevase, la formazione di un governo ad interim, elezioni anticipate e un’indagine che facesse luce sull’uccisione di manifestanti.

Manifestazioni in Iraq
Manifestazioni in Iraq
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

21 Gennaio 2020 - 16.36


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Iraq, la rivolta in uno Stato fallito. Senza più un governo credibile. Senza più un primo ministro. Divorato dalla corruzione. Si intensificano le proteste anti-governative a Baghdad e in diverse città meridionali irachene. Ci sono manifestazioni nei governatorati di al-Muthanna, Wasit, Diwaniyah, Bassora e Dhi Qar. I manifestanti hanno bloccato le strade in diverse città tra le quali Baghdad, intensificando la loro battaglia per chiedere un cambiamento a livello politico, un nuovo primo ministro e anche la riforma elettorale. Scaduto il termine concesso al governo per rispondere alle loro domande. Tra le richieste rimaste inevase, la formazione di un governo ad interim, elezioni anticipate e un’indagine che facesse luce sull’uccisione di manifestanti.

Rivolta e sangue

Secondo l’agenzia di stampa irachena, diverse persone sono state arrestate perchè avevano tentato di bloccare la strada di Mohamed al-Qasim, che collega la parte meridionale e settentrionale di Baghdad. I manifestanti hanno anche bloccato e installato tende sulla strada principale tra Baghdad e Nassiriya, un’altra delle grandi città del Paese. Chiusa anche l’autostrada che collega al-Diwaniyah ad altre province e, secondo al-Arabiya, anche le strade principali nella città di Kut del governatorato di al-Wasit, che confina con l’Iran. A Najaf, i manifestanti hanno bruciato immagini del generale iraniano Qassem Soleimani e hanno strappato poster di Abu Mahdi al-Muhandis, l’ex leader delle forze di mobilitazione popolari irachene, Hashd al-Shaabi, il cartello delle milizie irachene per lo più sciite e controllate dall’Iran.

Di fronte all’escalation della tensione in Iraq, il governo ha autorizzato le forze di sicurezza ad arrestare i manifestanti che blocchino strade e l’ingresso agli edici governativi. Lo ha deciso il Consiglio di Sicurezza nazionale. “Le forze di sicurezza hanno il mandato di arrestare coloro che tagliano strade, bruciano pneumatici o chiudono dipartimenti governativi”, ha detto all’agenzia di stampa irachena il portavoce del comandante in capo delle forze armate, il maggiore generale Abdul Karim Khalaf. Lo riporta Sky News Arab.

Intanto le autorità irachene hanno annunciato che sono rimasti feriti almeno 14 uomini delle forze di sicurezza negli scontri delle ultime ore. Nella tarda serata di domenica i manifestanti hanno cominciato a isolare strade e ponti nella capitale e nel sud del Paese, appiccando il fuoco a pneumatici e innalzando barricate. Oggi hanno cercato di fare lo stesso, ma le forze di sicurezza stanno reagendo. Il rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Iraq, Jeanine Hennis-Plasschaert, ha definito “inaccettabile” l’uso della forza contro i manifestanti pacifici e ha rinnovato la richiesta di riforme, esprimendo preoccupazione sulla violazione dei diritti umani. Importante, ha aggiunto in una nota, trovare il modo di rispondere alle richieste del popolo iracheno. “Negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di iracheni di ogni estrazione sociale sono scesi in piazza per esprimere le loro speranze di tempi migliori, liberi da corruzione, interessi di parte e interferenze straniere. L’uccisione e le lesioni di manifestanti pacifici, combinati con lunghi anni di promesse non consegnate, hanno provocato una grave crisi di fiducia”, ha detto Hennis-Plasschaert. 

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Una piazza giovane

Stando a quanto riporta il canale di informazione curdo Rudaw, infatti, la composizione della piazza è mista: sono diverse le categorie di dimostranti, persone di varie estrazioni sociali ed economiche, tra cui personale del ministero della Difesa venuti a chiedere diritti salariali, studenti universitari, esponenti delle Unità di mobilitazione popolari. In larga misura, però, si tratta di giovani che combattono l’intero establishment iracheno dichiarandosi indipendenti da qualsiasi partito politico o fazione religiosa. “Nei miei occhi ci sono ancora gli slogan usati dal movimento dei manifestanti: ‘We Want an homeland’, ‘Another Iraq is possible’ e ancora ‘Vogliamo la caduta del regime’. E poi ci sono numerosi altri slogan che rivendicano la cacciata di entrambe le potenze: ‘Né Usa, né Iran’. Sono stufi di entrambi perché dal 2003 hanno pagato sulla loro pelle il prezzo di queste ingerenze. Tra le rivendicazioni della piazza c’è anche questa. Scorrendo i vari meme che sono usciti sui social arabi ne ho visto uno in cui l’Iraq è rappresentato in mezzo tra le due bombe di Iran e Usa. ‘Non siamo il campo di battaglia di nessuno’, rivendicano i giovani”, racconta in una intervista a Magzine  Sara Manisera, giornalista freelance reporter in Iraq, Siria e Libano. Sara è stata in Iraq, conosce gli sviluppi, ha vissuto al lato dei giovani iracheni in protesta e ha realizzato un bellissimo reportage per la televisione francese ARTE. “Il 60% della popolazione irachena ha meno di 25 anni – sottolinea la reporter – È un Paese giovane ma nel quale i ragazzi non hanno alcuna prospettiva per il futuro: la disoccupazione è al 38%. Sono cresciuti dopo il 2003 e hanno vissuto costantemente in un clima di guerra. È dunque una generazione che rifiuta il conflitto settario e la divisione su base confessionale e, soprattutto, chiede dei diritti: protesta contro la corruzione, per l’assenza di servizi pubblici, per un futuro migliore. È una generazione che ha il cellulare in una mano e la bandiera irachena nell’altra: sono tutti connessi ai social che usano anche per coordinarsi e, soprattutto, non hanno bandiera religiosa, si sentono semplicemente iracheni. Appartengono a diverse classi sociali: ci sono disoccupati, ceti medio-bassi, laureati. Insomma, è un gigantesco microcosmo di un movimento eterogeneo trasversale e che non ha una leadership. Questi ragazzi hanno deciso di occupare letteralmente la piazza: dormono lì, vivono lì. Stiamo parlando di un movimento maturo, in termini di proposte e rivendicazioni. I movimenti progressisti italiani ed europei dovrebbero guardare l’Iraq e prendere spunto”.

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Né Usa né Iran

Dopo Kerbala, Najaf. Dopo Najaf, Nassiriya. La rivolta irachena ha individuato il Nemico esterno: l’Iran. La situazione si fa sempre più drammatica. Il vice comandante del Consiglio per la mobilitazione popolare (organo di comando delle milizie a maggioranza sciita), Abu Mahdi al Mohandes, ha annunciato che tutte le “brigate” delle forze a maggioranza sciita sono “ora comandate dall’autorità religiosa suprema” ayatollah Ali al Sistani. In una breve dichiarazione rilasciata al sito al Ahd News, Al Mohandes ha commentato gli scontri avvenuti a Najaf. “Qualsiasi mano s’avvicini al santuario e tenti di offendere la guida suprema verrà tagliata, ha dichiarato. Najaf ospita il mausoleo del primo imam, Ali, ed è terza dopo la Mecca e Medina per numero di pellegrini accolti ogni anno. A Najaf ha seguito gli studi sacri l’Ayatollah Khomeini, padre della rivoluzione islamica iraniana. Se brucia il consolato iraniano brucia qualcosa di più dell’edificio: in fiamme va l’autorità stessa dell’Iran in tutto il mondo sciita. Nonostante la linea dura, la repressione sanguinosa e i reiterati coprifuoco, però, la popolazione continua a scendere in piazza a protestare. “Le nostre richieste? Vogliamo lavorare, vogliamo lavorare. Se non vogliono trattarci come iracheni, allora ci dicano che non siamo iracheni e troveremo altre nazionalità e migreremo in altri Paesi”, afferma un manifestante a Baghdad. Sparano al petto, al collo, alla testa. È come un’esecuzione. Le strade sono piene di sangue», racconta un manifestante ad Amnesty International . In piazza Tahrir, nel centro di Baghdad, sul “muro dei desideri” della protesta la scritta: “Voglio che il bagno di sangue finisca”. La frustrazione coinvolge particolarmente i giovani fra i quali il tasso di disoccupazione è elevatissimo (quindici per cento contro l’otto per cento della media nazionale).

Fonti ufficiali riferiscono che dal 2004, a un anno di distanza dall’invasione statunitense che ha determinato la cacciata di Saddam Hussein, circa 450 miliardi di fondi pubblici sono svaniti nelle tasche di politici e uomini di affari. In questa situazione, corruzione e politica appaiono intrinsecamente connessi, secondo quanto riporta il quotidiano The New Arab. Non solo i ministri sono spesso implicati nelle frodi, ma il settore pubblico è sovradimensionato e facile da truffare e si contraddistingue per le migliaia di impiegati “fantasma” che percepiscono stipendi, senza lavorare in realtà. Secondo i dati parlamentari, dal 2003 queste uscite sono costate all’Iraq 228 miliardi di dollari, anche se il numero potrebbe essere significativamente più alto. Le diverse fazioni che si contendono il potere, l’influenza e l’accesso ai fondi del tesoro hanno come primo interesse quello di continuare a finanziare le proprie reti. La corruzione è all’origine delle gravi difficoltà economiche e dell’aumento della povertà e della disoccupazione. È il principale motivo per cui mancano i servizi di base. Il fabbisogno energetico dell’Iraq non è coperto neanche per metà nonostante dal 2003 a oggi siano stati spesi quaranta miliardi di dollari per la rete elettrica. Il parlamento è estremamente corrotto. Su 328 parlamentari iracheni, 273 non hanno voluto svelare la loro situazione finanziaria al Comitato per l’integrità. “Il vero male dell’Iraq oggi è la corruzione le cui conseguenze negative si riversano sulla vita di tutti i giorni della popolazione. La corruzione nega i diritti delle persone, crea povertà, blocca lo sviluppo” racconta al Sir dalla capitale irachena Nabil Nissan, da undici anni direttore Caritas Iraq. Tangenti e clientelismo: sono questi i nemici degli iracheni “preoccupati anche dall’instabilità politica, dalla presenza delle milizie paramilitari che hanno combattuto l’Isis, dalla mancanza di sicurezza”. Una speranza di cambiamento che deve fare i conti con la brutalità dei suoi nemici. In Iraq crescono i rischi di un possibile colpo di stato.  “Un’escalation di violenza in una situazione di precarietà come quella in cui versa l’Iraq – rimarcano Chiara Lovotti e Francesco Salesio Schiavi in un documentato report per L’Ispi – minaccia di trascinare il paese nella stessa spirale di instabilità che ha più volte caratterizzato il periodo post-Saddam, con il rischio che il malcontento popolare venga strumentalizzato sia da partiti e fazioni politiche, sia dalle numerose milizie e dai gruppi armati interessati ad accrescere la propria influenza. In altre parole, se la situazione che l’Iraq sta vivendo in questi giorni dovesse protrarsi e raggiungere un punto di non ritorno, il rischio sarebbe quello di rigettare il Paese nel caos e allontanare, ancora una volta, la parola “stabilità” dal vocabolario della storia irachena”. 

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