Caso Zaki, l'Egitto ricatta l'Italia e avverte l'Europa: è affare nostro
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Caso Zaki, l'Egitto ricatta l'Italia e avverte l'Europa: è affare nostro

L’intervento del presidente del Parlamento del Cairo arriva 24 ore prima dell’udienza di convalida del fermo. E secondo fonti al Cairo, potrebbe essere il primo segnale di una controffensiva egiziana.

Manifestazione per Zaki
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

14 Febbraio 2020 - 17.06


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Altro che collaborazione. Quello di Zaki  è “affare nostro” e l’Europa se ne stia alla larga. Messaggio da Il Cairo. Destinazione Bruxelles. “Le dichiarazioni del presidente del Parlamento europeo David Sassoli” su Patrick Zaki “sono interferenze inaccettabili negli affari interni” egiziani. Il presidente della Camera dei deputati egiziana, Ali Abdel Aal, bolla così l’intervento di Sassoli che, parlando in aula a Strasburgo, aveva chiesto l’immediato rilascio di Zaki cittadino egiziano ma studente a Bologna, arrestato dalle autorità del Cairo lo scorso 7 febbraio mentre tornava a casa per un breve periodo di vacanza. Il ragazzo stava trascorrendo un periodo di formazione nell’ateneo emiliano, dove frequentava un master in gender studies nell’ambito del progetto europeo Erasmus Mundus. Zaki “gode di pieni diritti, come gli altri arrestati, senza discriminazioni” ha detto ancora il presidente del Parlamento egiziano, ricordando che l’arresto del ricercatore è avvenuto in base a “provvedimenti giudiziari” presi nei suoi confronti “dalla procura generale a settembre 2019 e che l’uomo è stato arrestato l’8 febbraio 2020 al suo arrivo nel Paese proveniente dall’Italia”.

La controffensiva egiziana

L’intervento del presidente del Parlamento del Cairo arriva 24 ore prima dell’udienza di convalida del fermo. E secondo fonti al Cairo, potrebbe essere il primo segnale di una controffensiva egiziana.

“Le affermazioni su ingerenze esterne non sono altro che una propaganda nazionalista utilizzata per spaventare gli egiziani e impedire loro di esporre i crimini dello Stato egiziano”. Così gli attivisti della campagna ufficiale di solidarietà a favore di Patrick George Zaki. “La notizia dell’udienza sulla custodia cautelare fissata a sabato 15 febbraio si per sé non è una cattiva notizia. Ma non saltiamo a conclusioni affrettate: sabato i giudici non si pronunceranno sulle accuse a carico di Zaki discuteranno il ricorso dei suoi legali per la scarcerazione. Quindi ci si atterrà agli affetti procedurali”, afferma  all’agenzia Dire Amr Abd Al-Rahman, direttore dell’Egyptian initiative for personal rights (Eipr), ong che sta seguendo attraverso i suoi legali la vicenda giudiziaria di Patrick Zaki. Un’udienza che accoglie la richiesta dei suoi avvocati contro l’ordinanza dello scorso 8 febbraio con cui le autorità egiziane avevano stabilito di trattenerlo in custodia per 15 giorni. Patrick ieri è stato trasferito, dalla stazione di polizia di Mansoura 2, dove si trovava dall’8 febbraio, alla stazione di polizia di Talkha, La sua famiglia e un collega dell’Eipr, ieri hanno potuto vederlo per un brevissimo periodo, meno di un minuto, nella stazione di polizia di Talkha, dove, precisa la ong, Patrick “è trattenuto in condizioni meno favorevoli rispetto al suo primo luogo di detenzione”, ma “non è stato maltrattato”. Il padre, George Michel, l’ultimo baluardo di forza per la madre e la sorella, disperate, è crollato. Dopo la visita del 13 febbraio, scrive Repubblica, ha avuto un crollo: “Non capisco che sta succedendo, c’è qualcosa di mostruosi in questo caso”, ha ripetuto più volte a se stesso nel salotto di casa. Pare che le preoccupazioni dell’uomo riguardino le “ingerenze” esterne all’Egitto, proprio quelle che, secondo l’ong dove lavora Zaki, dovrebbero rivelarsi decisive.

Accuse vergognose

Zaki sarebbe accusato di aver svolto una tesi sull’omosessualità. A rivelarlo è Nashat Dahi, noto conduttore di una trasmissione andata in onda alcuni giorni fa su Ten Tv, emittente finanziata dal governo egiziano, secondo cui il 27enne “è andato a fare un master sull’omosessualità, questo è l’oggetto della sua tesi. Il ragazzo è andato a studiare queste cose all’estero, all’Università di Bologna. E’ attivo all’estero per fare una cosa sola, insultare lo stato egiziano, attaccare lo stato egiziano, incitare contro lo stato egiziano”. Nel suo intervento Nashat Dahi – con tono di scherno – sostiene che Zaki collaborava con il rappresentante di un’associazione di omosessuali, che è stato fermato dalla polizia perché voleva rovesciare il regime di al-Sisi e che aderiva ai Fratelli Musulmani ed era “finanziato da Qatar”. Il giornalista aggiunge che la stampa italiana e le organizzazioni internazionali stanno attaccando il governo egiziano e che va quindi “tagliata la loro lingua”, con particolare riferimento ad Amnesty International. L’associazione impegnata per la difesa dei diritti umani è testualmente definita “una schifezza”. Per finire Nashat Dahi sostiene che la vicenda di Zaki attiene esclusivamente alla giustizia egiziana e che i giornali italiani starebbero conducendo una campagna diffamatoria contro l’Egitto, mentre il governo italiano “è un alleato” e l’Italia “il primo partner commerciale”.

Il Corriere della Sera riporta che secondo l’Eipr potrebbe centrare anche La Trappola, ovvero un libretto di 72 pagine sulla persecuzione della differenza sessuale in Egitto scritto dallo studente nel settembre 2017. Ma si fa sempre più strada, tra i sospetti dietro i suoi numerosi capi d’accusa per incitazione alla protesta e alla destituzione del governo, anche il possibile legame col caso Regeni. Secondo gli attivisti i due non si conoscevano, ma a Zaki sarebbero state rivolte delle domande sul ricercatore italiano.

L’amico torturato

“Sono stato rapito dalle forze di sicurezza statali” in Egitto “e interrogato per 35 ore”, “non ho subito elettroshock ma sono stato picchiato, bendato e legato. Mi hanno privato del sonno e hanno cercato di distorcere il tempo”. È la drammatica testimonianza che fa all’Ansa Amr, cittadino egiziano 29enne che vive e lavora a Berlino da qualche anno, amico di Patrick George Zaki, in prima fila tra coloro che in tutta Europa ne stanno chiedendo la liberazione. “Assolutamente sì”, c’è il timore di essere spiati e controllati dalle forze di sicurezza egiziane anche all’estero, “ci sono state tante storie su questo in passato, una volta ho incontrato un ricercatore che stava scrivendo una tesi di master proprio su questo argomento”.

Dopo essere stato così interrogato “sono stato rilasciato, ma hanno continuato a chiamarmi per le indagini più volte e quindi mi sono reso conto che ero in pericolo e dovevo scappare dal Paese”, racconta Amr. Questo accadeva nel luglio 2015, dal settembre di quell’anno Amr non ha più messo piede nel suo Paese natio, l’Egitto. “Come ingegnere del software ho avuto subito diverse offerte di lavoro in Europa e sono partito subito”. Ai tempi dell’Università, Al Cairo, risale la sua conoscenza con Patrick Zaki. I due si sono avvicinati con l’inizio della rivoluzione egiziana nel 2011 e poi nel 2012 Amr racconta di Patrick, in prima fila per lui espulso dall’università “per motivi politici”.

Ora l’amico ricambia il favore in un certo senso, e parla a nome di migliaia di attivisti e amici tra Egitto ed Europa che in questi giorni hanno messo in piedi una straordinaria mobilitazione, sul web, nelle piazze, non solo a Bologna Proprio la petizione lanciata da Amr su Change.org sabato per chiedere la liberazione di Patrick ha superato 35mila firme. “In questi ultimi 9 anni ho imparato la lezione a mie spese – dice Amr all‘Ansa – Niente è più importante che coinvolgere le persone. Le persone sono il vero potere”. “Pagherò un prezzo per aver fatto sentire la mia voce per Patrick, lo so – aggiunge – ma è tempo che si conosca il prezzo che paghiamo. Il mio più grande timore è che questo prezzo che noi egiziani paghiamo per la nostra sicurezza sia per nulla. E questo accadrà soltanto se le persone cominceranno a ignorare le nostre storie. A trattarci come numeri, i 60mila detenuti politici in Egitto non sono numeri. Sono persone con volti, vite, con persone che amano, cibo che amano, famiglie, passioni, ma il mondo li vede solo come numeri. La mia più grande speranza è che arrivi un giorno in cui finiscano tutte le dittature del mondo. Un mondo di verità e giustizia, per Regeni, per Patrick, Alaa Abdelfattah, per Shady Abu Zaid,  per Ahmed Douma, per chiunque lotti per la libertà in questo mondo”.

Commentando l’udienza del 15 febbraio, Amr afferma che si tratta di “una buona notizia, perché non è comune fissare qualcosa prima dell’udienza canonica per il prolungamento della custodia cautelare. Speriamo che non sia una trappola per far pensare all’opinione pubblica che abbiamo vinto in modo che cali l’attenzione. L’hanno anche trasferito in una prigione di qualità inferiore, per così dire, dove ora è circondato da criminali, mentre prima era circondato solo da detenuti politici”. Mentre su Twitter Amr ha scritto: “I prossimi due giorni saranno cruciali per tutti noi, continuate a parlare di Patrick”.

Giorni decisivi

Un appello che non cade nel vuoto. Francesco Ubertini, rettore dell’Università di Bologna, ha chiesto che l’attenzione sul caso rimanga alta e per lunedì 16 febbraio è prevista un’altra manifestazione, dopo il flash mob del 10 febbraio.  “Facciamo nostro l’appello partito dal rettore Francesco Ubertini a nome dell’Università di Bologna: i diritti fondamentali dell’uomo sono inviolabili”, ha affermato in una nota il rettore dell’Università di Padova, Rosario Rizzuto. “L’Università di Padova – ha detto – che porta nel suo Dna la libertà in tutte le sue forme e per tutti, chiede alle istituzioni nazionali e internazionali di continuare a battersi per trovare una soluzione al più presto per il caso Zaki. Ho avvertito i componenti di Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione del nostro ateneo della volontà di condividere la mozione partita dall’Alma Mater di Bologna, con la forte speranza che già alle prossime riunioni previste da calendario per i nostri organi accademici – conclude – non ci sia più bisogno di farlo e che Zaki abbia già ritrovato la libertà”. “Questa data intermedia ci conferma che sono giorni cruciali in cui l’Italia può fare la differenza, rimarca Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia,.

Sulla vicenda sono intervenuti anche il padre e la madre di Giulio Regeni, che hanno lanciato un appello affinché Patrick George Zaki non venga sottoposto allo stesso trattamento riservato dalle forze di sicurezza egiziane al ricercatore friulano. “Auspichiamo che ci sia per Zaki una reale, efficace e costante mobilitazione affinché questo giovane possa essere liberato senza indugi. Chiediamo alle istituzioni italiane ed europee di porre immediatamente in essere tutte quelle azioni concrete che non sono mai state esercitate per salvare la vita di Giulio o per pretendere verità sul suo omicidio. Siamo empaticamente vicini ai familiari e agli amici di Patrick dei quali comprendiamo l’angoscia e il dolore. Noi sappiamo di cosa è capace la paranoica ferocia egiziana: sparizioni forzate, arresti arbitrari, torture, confessioni inverosimili estorte con la violenza, depistaggi, minacce. Patrick, come Giulio, merita onestà e determinazione, non chiacchiere imbarazzanti e oltraggiose”. Una domanda è d’obbligo: cos’altro deve accadere perché il premier Conte e il ministro Di Maio decidano di richiamare in Italia il nostro ambasciatore in Egitto?

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