Non sapendo più dove sbattere la testa per non perdere la faccia, il ministro degli Esteri ha messo in piedi una proposta sintetizzabile così: soldi in cambio di diritti. È su questo principio che si basa il memorandum Italia-Libia, la cui bozza integrale è stata ottenuta in esclusiva da Avvenire. Nel testo “si parla di diritti, ma con la lingua dei soldi”, sintetizza il quotidiano della Cei, che denuncia un’operazione di cosmesi sugli orrori dei centri di detenzione libici. Quelli che l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha chiamato veri e propri “campi di concentramento”, nella bozza di Roma diventano addirittura “centri di accoglienza”. Di torture, abusi, stupri, riduzione in schiavitù non si parla mai.
L’ultima vergogna
Nel testo di 7 pagine si riconosce che il traffico di esseri umani, insieme a quello di armi e petrolio, sia una fonte di entrate per intere aree del Paese, perciò viene proposto di “avviare programmi di sviluppo, attraverso iniziative capaci di creare opportunità lavorative ‘sostitutrici di reddito’ nelle regioni libiche colpite dai fenomeni dell’immigrazione irregolare, traffico di esseri umani e contrabbando”. Tradotto in euro, vuol dire almeno 800 milioni nei prossimi anni, cifra che non si rinviene nei documenti ufficiali ma circola con insistenza alla Farnesina e al Viminale.
Soldi che l’Italia sborserebbe in cambio del mantenimento di alcuni impegni da parte del governo di Tripoli, tra cui il “rilascio di donne, bambini e altri individui vulnerabili dai centri e alla chiusura di quei centri che, in caso di ostilità, siano più direttamente esposti al rischio di essere coinvolti nelle operazioni militari”. L’Italia chiede «il pieno e incondizionato accesso agli operatori umanitari, che potranno rafforzare l’attività di assistenza umanitaria a favore dei migranti e delle comunità ospitanti». E chiede anche la «progressiva», e anche qui non “immediata”, “chiusura dei centri non ufficiali in cui sono trattenuti i migranti irregolari”. Campi di prigionia, beninteso, gestiti direttamente dalle milizie e dai trafficanti di uomini e di cui non si conosce la dislocazione esatta, che evidentemente Roma ritiene sia invece nota alle autorità di Tripoli. E probabilmente alludendo a figure come il comandante al-MIlad, nome di guerra “Bija”, che viene anche chiesta “l’esclusione dai centri del personale che non abbia adeguate credenziali in materia di diritti umani”, rileva nell’articolo Nello Scavo, , autore di importanti scoop sulla vergogna libica. E per rassicurare il governo riconosciuto del premier al-Sarraj viene ribadito che non sarà messo in discussione il Trattato di amicizia firmato da Berlusconi e Gheddafi a Bengasi il 30 agosto 2008, nonché la Dichiarazione di Tripoli del 21 gennaio 2012 (governo Monti).
Su un punto Roma sembra insistere: “Rispetto dei trattati e delle norme internazionali consuetudinarie di diritto umanitario e sui diritti umani, inclusi i principi e gli scopi della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati». Peccato, però, ricorda Scavo, che la Libia non ha mai firmato la Convenzione sui Diritti dell’Uomo.
La diplomazia delle chiacchiere
Dopo aver incontrato a sorpresa il premier del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli, Fayez al-Sarraj, sempre nella giornata di ieri Di Maio è volato a Bengasi per un colloquio con il generale Khalifa Haftar, controparte sostenuta da Russia, Egitto ed Emirati Arabi. Un incontro che, però, non si è svolto in un clima disteso, visto che le milizie dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) fedele all’uomo forte della Cirenaica ha lanciato razzi contro l’aeroporto di Mitiga, l’unico funzionante a Tripoli.
Tutti i voli da e per lo scalo tripolino sono stati sospesi per circa metà giornata, come riferisce The Libya Observer che riporta anche situazioni di panico tra i viaggiatori. La notizia della sospensione è stata poi confermata anche dalla pagina Facebook dell’aeroporto e dal vice ministro dei Trasporti del governo di Tripoli, Hisham Abu Shikawat, come riportato da Al Ahrar Tv.
E nonostante l’adozione di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onuc he chiedeva alle parti in guerra in Libia l’impegno per “un cessate il fuoco duraturo”, nelle ultime 48 ore si registrano anche nuovi combattimenti a sud di Tripoli nel corso dei quali, secondo il Gna, è stata uccisa una donna.
Nelle ore precedenti al bombardamento, il portavoce dello Lna, Ahmed al Mismari, aveva annunciato, nel corso di una conferenza stampa, che i suoi uomini non avrebbero più permesso ai voli delle Nazioni Unite di utilizzare lo scalo tripolino, invitandoli a dirottare i propri aerei su altri scali, ad esempio Misurata. Il motivo, ha aggiunto, è legato al fatto che i soldati di Haftar non possono più garantire la sicurezza degli operatori dell’Agenzia in vista di ulteriori attacchi, dato che, sostengono, la Turchia lo sta utilizzando come base. L’Onu ha espresso il proprio “rammarico” per il divieto: “Questa pratica è stata ripetuta in diverse occasioni nelle ultime settimane”, si legge in una nota della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Umsmil).
Nonostante i nuovi scontri sul terreno, Di Maio al termine del bilaterale ha comunque dichiarato di aver trovato “una sincera apertura all’idea che il Joint Military Committee possa essere un consesso per cercare una soluzione per il cessate il fuoco” e che “in Libia c’è un popolo che vuole delle risposte. La risposta non può essere però in alcun modo militare. Non possono essere le armi o i bombardamenti. La strada da seguire deve essere inevitabilmente quella del dialogo e della diplomazia“. Il capo della Farnesina ha aggiunto in un post su Facebook che “stiamo lavorando concretamente affinché quella strada sia intrapresa da ambo le parti ed è fondamentale per noi che gli esiti della conferenza di Berlino siano rispettati”. Al generale Khalifa Haftar, dice, “ho ribadito che l’Italia non accetta alcuna interferenza esterna” nella crisi libica e che “bisogna lavorare con impegno per un cessate il fuoco permanente”.
Tripoli per ora prende tempo: oltre al premier al-Sarraj, ieri Di Maio ha incontrato anche il ministro dell’Interno libico Bashaga. “L’idea di reinsediare migranti è respinta e inammissibile per i libici come qualsiasi altra questione che tocchi la sovranità libica”, si è limitato a dire Bashaga al suo interlocutore italiano, secondo quanto riferito dall’ufficio stampa del ministro libico, che ha tuttavia assicurato “ogni sforzo nella lotta alla migrazione illegale” e invitato a considerare che “la soluzione comincia a sud della Libia, nei Paesi africani dove la povertà obbliga i suoi abitanti a cercare una vita dignitosa in Europa”.
Insomma, al di là delle dichiarazioni autocelebratorie, della rivendicazione di una inesistente premiership, siamo alle prese con l’ennesimo flop della lunga serie collezionata dall’Italia in Libia. I messaggi del ministro degli Esteri sono parte della narrativa pubblica che l’Italia ha adottato negli ultimi mesi: “In Libia c’è un popolo che vuole delle risposte. La risposta non può essere però in alcun modo militare. Non possono essere le armi o i bombardamenti. La strada da seguire deve essere inevitabilmente quella del dialogo e della diplomazia”. Una narrazione, per l’appunto, perché fino a quando chi fornisce le armi non verrà convinto a cessare o almeno ridurre il flusso, un vero negoziato politico non avrà forza, Di Maio dice che “stiamo lavorando concretamente affinché quella strada del negoziato sia intrapresa da ambo le parti, ed è fondamentale per noi che gli esiti della conferenza di Berlino siano rispettati. Non esitai a dire all’inizio del mio mandato alla Farnesina che era stato perso del terreno in Libia, oggi però è altrettanto doveroso dire che qualcosa è stato recuperato. Siamo tornati ad avere un peso determinante in Ue e una indubbia affidabilità con tutti gli attori coinvolti, questo grazie anche al lavoro dei nostri tecnici, del corpo diplomatico e dei nostri apparati di intelligence”.
Il copia-incolla di dichiarazioni ripetute all’infinito, di rivendicazioni di un ruolo da protagonisti che non ha riscontri nella realtà. Sarraj è ancora in sella, sia pur traballante, grazie al sostegno di Ankara. Haftar per il supporto dell’Egitto e di Mosca.
I mercenari del Sultano
L’Italia fa chiacchiere, la Turchia, fatti. E un fatto è il rafforzamento delle difese delle milizie del Governo di accordo nazionale al cui fianco combattono almeno 3.200 mercenari siriani sbarcati a Tripoli nelle scorse settimane con aerei e navi turchi.
Come rimarca un documentato report di AnalisiDifesa, il numero di questi miliziani, arabi turcomanni e combattenti delle milizie jihadiste che si erano opposte all’esercito di Bashar al-Assad, è oggetto di dibattito. Fonti vicine al GNA riferiscono di 3200 uomini tutti dislocati sul fronte sud di Tripoli e guidati da ufficiali turchi, mentre ad Abu Grein ci sarebbero solo milizie di Misurata. L’impressione è quindi che le unità di mercenari operino in modo autonomo dalle milizie libiche alleate rispetto alle quali avrebbero un migliore addestramento e la guida di ufficiali turchi esperti. Da Londra, l’Osservatorio siriano per i diritti umani aveva invece riferito di ben 4.700 mercenari ma le fonti siriane utilizzate da queste ong potrebbero aver incluso nel numero anche i combattenti in fase di arruolamento nei centri di reclutamento istituiti dai turchi ad Afrin e in altre località della Siria settentrionale controllate dalle truppe di Ankara.
In tal caso a fronte di oltre 3mila combattenti già schierati in Libia ve ne sarebbero circa 1.500 in fase di preparazione per raggiungere prossimamente Tripoli. Anche fonti egiziane, citate dal quotidiano del Cairo al-Watan, stimano in “almeno tremila” i miliziani siriani dispiegati nelle aree controllate dal GNA nella Libia occidentale dopo essere stati trasferiti in Libia dai velivoli cargo militari turchi. Oltre a consiglieri militari e mezzi – annota ancora il report – la Turchia ha inviato a Tripoli anche mezzi corazzati ACV-15 e una serie di strumenti per la difesa aerea schierati a protezione dell’aeroporto di Mitiga: missili antiaerei Hawk XXI, semoventi contraerei e cannoni a tiro rapido da 35 millimetri oltre a sistemi di disturbo elettronica (jammer) in grado di abbattere i droni armati cinesi Wing Loong impiegati dai contractors degli Emirati arabi Uniti che affiancano l’esercito nazionale libico (LNA) di Haftar.
I turchi hanno schierato sistemi simili a che a protezione dell’aeroporto di Misurata, dove si trova la base italiana che ospita la missione sanitaria nota come Operazione Ippocrate (circa 240 militari e una sessantina di medici, paramedici e tecnici). Da quando questi mezzi e armamenti antiaerei sono stati dispiegati dai turchi le forze di Haftar non sono più stare in grado di bombardare dall’aria i due aeroporti limitandosi a colpire lo scalo tripolino di mitiga con razzi e colpi di mortaio.
Il vero interrogativo riguarda ora l’impiego dei mercenari siriani che potrebbero lanciare un robusto contrattacco almeno sul fronte centrale di Tripoli oppure consolidare le postazioni difensive per sbarrare la strada all’LNA. Una cosa è certa: da questa partita l’Italia è fuori.