Zaky resta in carcere e Amnesty rilancia: "La campagna per la liberazione di Patrick continua
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Zaky resta in carcere e Amnesty rilancia: "La campagna per la liberazione di Patrick continua

Con un'udienza farsa è stata negata la libertà all'universitario. Riccardo Noury: "L’obiettivo di ottenere sabato 22 quello che non siamo riusciti ad ottenere questa mattina”.

Patrick George Zaky
Patrick George Zaky
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

15 Febbraio 2020 - 11.42


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Dieci minuti per istruire una tragica farsa. Dieci minuti, tanto è durata l’udienza del tribunale di Mansura, che ha respinto la richiesta di scarcerazione presentata dai legali di Patrick George Zaky, lo studente dell’Università di Bologna arrestato al rientro in Egitto con accuse di propaganda eversiva.  «Il ricorso è stato respinto», ha detto uno dei legali del ragazzo Wael Ghaly. Ora Patrick Zaky rischia una detenzione prolungata, rinnovata ogni 15 giorni, fino al processo. Per i reati di cui è accusato – sostanzialmente minaccia di rovesciamento del regime – potrebbe anche venire condannato all’ergastolo, ha detto nei giorni scorsi il suo avvocato.

Udienza farsa

Patrick George Zaky è arrivato al tribunale di Mansoura in manette. Entrando, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano come stava, “tutto bene”. Zaky, apparentemente in buone condizioni è arrivato ammanettato al poliziotto che lo ha scortato nel locale. Zaky ha parlato ed ha raccontato al giudice di essere solo uno studente che in Italia segue un master. E lì vuole tornare a studiare: “Non ho fatto nulla di male”.

All’udienza hanno assistito quattro diplomatici. Due di Italia e Svezia, che rappresentavano l’Unione europea nell’ambito del programma di monitoraggio, insieme a uno statunitense e a un canadese. La prossima data cruciale per la vicenda di Patrick Zaky è il 22 febbraio. In quella data infatti, scadono i 15 giorni della prima ordinanza di detenzione e si terrà quindi a Mansoura un’udienza per decidere se rinviare a giudizio il ricercatore, se prorogare di altri 15 giorni la detenzione o nel caso più favorevole predisporne il rilascio. Se decideranno invece di mandarlo a processo con le accuse di istigazione alle proteste e propaganda di terrorismo rischia dai 13 ai 25 anni di carcere.

La battaglia continua

Questo è il commento a caldo per Globalist di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “Avevamo sperato tutti in un esito diverso e positivo. Questa mattina l’aula del tribunale di Mansura era piena di giornalisti e diplomatici. Tutto questo, però, non è servito. Ma dopo trenta secondi di delusione, ci organizzeremo per rafforzare ancora di più la campagna per la libertà di Patrick, con l’obiettivo di ottenere sabato 22 quello che non siamo riusciti ad ottenere questa mattina”.

Quanto poi alla richiesta, rilanciata dai genitori di Giulio Regeni, di richiamare in Italia il nostro ambasciatore al Cairo, Noury afferma che la richiesta in generale è da condividere “ma dobbiamo tener conto della situazione specifica di questi giorni e cercare di garantire la massima pressione diplomatica dell’Italia sull’Egitto anche attraverso il massimo di presenza fisica. Resta il giudizio negativo su quanto l’ambasciatore Cantini negli ultimi due anni e mezzo ha fatto favorire l’obiettivo della verità per per Giulio”.

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“Patrick è stato picchiato, sottoposto a elettroshock, minacciato e interrogato in merito al suo lavoro e al suo attivismo. I legali ci hanno assicurato che sul corpo mostra segni visibili delle violenze”, riferisce l’Eipr l’ong per cui il ricercatore egiziano collabora. “Stamane – prosegue il racconto dell’ong – Patrick è apparso davanti alla procura di Mansoura, dove i pubblici ministeri gli hanno contestato i reati di “istigazione a proteste e propaganda di terrorismo sul proprio profilo Facebook”.

Di Maio lo smemorato

“Andate a vedere cosa ha detto Di Maio nel 2016 su Giulio quando era all’opposizione. Purtroppo come dicevo prima chi entra nei palazzi camminando sui tappeti non sente il suono dei propri passi e perde il contatto con la realtà. Chi entra nei palazzi cambia. E questo è una vergogna“. Così  Paola Regeni, alla presentazione del libro Giulio fa cose ieri a Genova. A prendere la parola, è poi il padre del giovane di Fiumicello, Claudio: “La resistenza della politica italiana nella ricerca di verità su Giulio la sentiamo, se è stato rimandato al Cairo l’ambasciatore è proprio perché ci sono gli interessi dell’Italia nei confronti dell’Egitto, aspetti economici, investimenti, giacimenti e turismo”.

In nome dei buoni rapporti con il regime di al-Sisi e degli interessi commerciali, sostiene il padre di Giulio, “si è messa da parte la verità e la giustizia. L’ambasciatore non viene richiamato, cosa che stiamo chiedendo da tempo, il Governo egiziano non sta rispondendo alla rogatoria, quindi c’è una debolezza della politica italiana che non ci aiuta. Ci sono delle persone che ci sono vicine. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ci è molto vicino e siamo molto grati a queste persone, però manca il passo decisivo, il mettere davanti al Governo egiziano una posizione ferma. Il nostro Governo è un po’ ballerino su da che parte stare”.

Affari e diritti

l’Italia si accingerebbe a vendere due Fregate all’Egitto, nel quadro di un programma di forniture militari che varrebbe 9 miliardi di euro. Le navi, già pronte nei nostri cantieri per la Marina Militare, sarebbero a questa sottratte per essere date all’Egitto in pronta consegna. Altre da cantierare sarebbero consegnate in un secondo momento, assieme ad un certo numero di elicotteri. Si tratta dello “Spartaco Schergat” e dell'”Emilio Bianchi”. La prima arrivata presso il Muggiano nel gennaio 2019 e ormai prossima a prendere il mare nei mesi a venire, la seconda appena terminata per la parte strutturale e in procinto di iniziare i lavori di allestimento nel golfo.
Si tratta della nona e decima unità del programma per una fregata europea multi missione sviluppato insieme alla Francia, che a sua volta nel 2015 ha ceduto il suo Normandie all’Egitto. In ballo ci sarebbero anche pattugliatori, 24 cacciabombardieri Tifone, oltre ad aerei da addestramento Macchi M-346. La Marina egiziana, come riferisce La Stampa, avrebbe già acquistato anche una ventina di elicotteri Leonardo AW149 da impiegare a bordo delle due portaelicotteri acquistate dalla Francia, la Ghamal Abdel al-Nasser e la Anwar Sadat. L’iniziativa è partita dal Cairo, che ha espresso una manifestazione di interesse per le fregate della Fincantieri. L’azienda ha subito informato il governo italiano per avere l’autorizzazione ad andare avanti.

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Il progetto è quindi di una cooperazione su larga scala nell’industria militare, confermata dal giornale Mada Masr, che ha parlato di contatti con il ministro della Produzione militare Mohammed al-Assar, concretizzati con la firma di “nove memorandum d’intesa”, compresa la realizzazione di una “unità logistica integrata” al Cairo. Questo per il futuro. Il passato, recente, dice che ’Egitto ha pagato all’Italia una cifra record per l’acquisto di armi. I dati sono stati presentati alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 2 aprile 2019. In particolare, la cifra pagata dall’Egitto per l’acquisto di armi, munizioni e sistemi di informazione per la sicurezza di provenienza italiana, nel 2018, ammonta a più di 69 milioni di euro. Tale cifra supera di gran lunga i 7.4 milioni del 2017 ed i 7.1 milioni del 2016. Anche precedentemente, nel periodo 2013-2015, l’Italia ha venduto armi al Cairo per cifre inferiori a quelle attuali, per un massimo di 37.6 milioni di euro.

Nel 2018, l’Egitto si è classificato al decimo posto nell’elenco dei Paesi che importano armi italiane, ed è il primo Stato del continente africano, preceduto da Qatar, Pakistan, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Germania, Stati Uniti, Francia, Spagna e Gran Bretagna. I beni di maggior rilievo, di cui è autorizzata l’esportazione verso l’Egitto, sono pistole e fucili di piccolo calibro indirizzate all’esercito, nello specifico “armi ed armi automatiche di calibro uguale o inferiore a 12,7 mm”, oltre a bombe, siluri, razzi missili, accessori e pezzi di ricambio per armi americane ma fabbricate in Italia, apparecchiature elettroniche e software per il controllo regionale. Tali armamenti sono volti principalmente all’impiego militare, sia per l’esercito sia per la polizia e le forze di sicurezza. L’ambito relativo ai sistemi informatici risulta essere tra le novità delle relazioni Italia – Egitto.

Ma con il regime del presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi non sono in ballo solo affari navali. In Egitto l’Eni ha interessi stratosferici ed Edison, Intesa Sanpaolo, Pirelli, Italcementi, Ansaldo, Tecnimont, Danieli, Techint, Cementir stanno piantando tende. Oltre all’Eni, circa 130 aziende italiane operano in Egitto e producono circa 2,5 miliardi di dollari.  C’è Edison (con investimenti per due miliardi) e Banca Intesa San Paolo, che nel 2006 ha comprato Bank of Alexandria per 1,6 miliardi di dollari. Poi Italcementi, Pirelli, Italgen, Danieli Techint, Gruppo Caltagirone, e molti altri. Imprese di servizi, impiantistica, trasporti e logistica. L’Egitto fa gola. Ha lanciato grandi progetti di infrastrutture: dai porti e zone industriali lungo il canale di Suez appena raddoppiato, ai fosfati estratti nel deserto occidentale, a un nuovo triangolo industriale tra i porti di Safaga ed el Quseir sul Mar Rosso e la città di Qena sul Nilo, fino a una nuova espansione urbana e industriale sulla costa mediterranea intorno a El Alamein.

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Il governo egiziano conta di investirvi cento miliardi di dollari, promessi in gran parte dalle monarchie del Golfo, e le imprese di tutto il mondo sperano di partecipare alla festa..Un caso a parte è rappresentato dall’Eni. Presente in Egitto dal 1954 attraverso la filiale IEOC, la petrolifera italiana è la principale produttrice del Paese con 260,000 boed di gas naturale al giorno. Un report dell’Eni indica il ritrovamento di una nuova riserva di gas a Faghur durante una nuova operazione di esplorazione. È sufficiente pensare a quello che è accaduto il 31 gennaio del 2018 con l’inaugurazione del giacimento gasiero di Zohr scoperto due anni e mezzo prima dall’Eni. Quel giorno l’amministratore delegato della compagnia Claudio Descalzi presenziò alla cerimonia mentre la stampa egiziana celebrava in pompa magna i rapporti tra Italia ed Egitto

Ad agosto 2019 il ministro del Petrolio e le risorse minerali dell’Egitto, Tarek El-Molla, ha firmato tre nuovi accordi per l’esplorazione di petrolio e gas naturale nel Mediterraneo, Sahara Occidentale e il Nilo per circa 139,2 milioni di dollari. Il primo è siglato tra la Compagnia Egiziana di Gas Naturale, Tharwa Petroleum e l’Eni per due nuovi giacimenti nel Mare Mediterraneo dell’Egitto. Il secondo tra l’Autorità Petrolifera dell’Egitto, l’Eni e la croata Ina per l’apertura di nuovi pozzi petroliferi a Raas Qattara e il terzo tra l’Autorità Petrolifera dell’Egitto, Eni e la British Petroleum per quattro pozzi sul Nilo. Nuove scoperte che contribuiscono all’apprezzamento dei titoli di Eni a Piazza Affari. Non basta. Ci sono poi gli interessi di gruppi come Leonardo-Finmeccanica che con l’Egitto hanno relazioni da tempo. Per esempio, la società italiana ha venduto hardware militare al governo egiziano anche nei sistemi di monitoraggio e controllo delle frontiere, fornitura che rientra nell’ambito degli accordi sul controllo dell’immigrazione e dove la dimensione politica, commerciale, economica e strategica si sovrappongono.

Questi sono gli interessi miliardari a cui fa riferimento Claudio Regeni. Rispetto ai quali Luigi Di Maio è tutt’altro che “smemorato”. Lui una scelta l’ha fatta: quella degli affari.

 

 

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