Strage al tempo sikh. Una sfida mortale targata Isis. Un attacco al cuore di Kabul. E’ di almeno 25 morti il bilancio delle vittime dell’attacco che stamani ha colpito un tempio della comunità sikh nella capitale afghana. Secondo il bilancio ufficiale riportato dalla tv afghana Tolo, i feriti sono almeno otto. Il ministero degli Interni parla anche di “80 persone tratte in salvo, donne e bambini compresi”. L’attacco è cominciato alle 7 e 45 e il complesso religioso non era ancora pieno, con meno gente rispetto agli anni passati proprio per il timore di attacchi settari. “L’attacco di oggi a Kabul non ha nulla a che fare con i combattenti dell’Emirato islamico (come si definiscono i Talebani)”, ha detto il principale portavoce dei ribelli, Zabihullah Mujahid, in un messaggio su Twitter. Ma l’Isis ha rivendicato comunque l’assalto, secondo quanto riferisce il Site, il sito di monitoraggio dei gruppi jihadisti.
Il Vesak Festival, conosciuto anche Giorno di Buddha, si era tenuto ieri a Jalalabad, al confine con il Pakistan, e nella provincia di Nangahar, senza incidenti. Le minoranze sikh e indù rappresentano meno dell’1 per cento della popolazione afghana ma sono comunque nel mirino dei gruppi musulmani jihadisti, a cominciare dall’Isis.
Sfida mortale
Lo Stato islamico ha già compiuto una dozzina di attacchi contro la minoranza musulmana sciita nella capitale e ha nel mirino anche gli altri “infedeli”. A Jalalabad, nel 2018, lo Stato Islamico aveva compiuto un altro attacco contro i sikh afghani: in quel caso morirono 19 persone.
L’attacco arriva in un momento politico difficile. Il presidente Ashraf Ghani e lo sfidante Abdullah Abdullah si sono entrambi proclamati presidente, dopo un voto contestato e marchiato da brogli massicci. Gli Stati Uniti hanno concluso un accordo di pace con i Talebani ma lo stallo politico a Kabul impedisce di portarlo a compimento, con il ritiro delle forze americane e degli alleati Nato entro 13 mesi. Washington ha minacciato di tagliare un miliardo di dollari di aiuti se i rivali non si metteranno d’accordo e non accetteranno il piano di pace.
La trincea del Jihad
In Afghanistan operano altri gruppi jihadisti, come il Network Haqqani, manovrato dai Servizi pachistani, e lo Stato islamico, che ha cellule nella capitale e controlla una piccola fetta di territorio al confine con il Pakistan.
L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-vendita-incasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afghana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani.
Il fallimento dell’Occidente
Nel gennaio 2017, l’Isis ha annunciato la nascita di una nuova fazione locale in Afghanistan, alla quale hanno velocemente aderito molti fuoriusciti dai talebani: gli afghani di Nangarhar non lo sapevano, ma si trattava proprio dei pakistani rifugiati nelle loro case. Dopo un anno di alleanza con i talebani afghani, in estate, l’Isis è venuto allo scoperto predicando in moschea un islam rigidamente wahabita (lo stesso professato in Arabia Saudita). A luglio sono cominciati i primi scontri a fuoco tra i talebani afghani e i pakistani, passati all’Isis. Dopo un mese circa di combattimenti, l’Isis si è impossessato della zona, nonostante gli americani bombardassero sia loro che i talebani. Passando villaggio per villaggio e casa per casa, i jihadisti hanno rubato i mezzi di sostentamento ai residenti, distruggendo scuole e madrasse talebane, imponendo una nuova legge. Le abitazioni dei talebani sono state bruciate e chi veniva sospettato di essere loro alleato è stato rapito e seviziato.
Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al Califfo Al-Baghdadi, anche lui passato a miglior vita. Nella stessa, il Mullah intimava il fu Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. E a rendere ancora più ingovernabile il Paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtun, si aggiungono Tajiki, Hazara, Uzbechi, Aimak, Turkmeni e Baluchi.
Dopo diciannove anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Diciannove anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l’Italia. Afghanistan, 2001-2020: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli.
Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato.
Il “male minore”
E così, nella logica delle alleanze variabili che connota, in politica estera, l’”America first” d Donald Trump, i talebani possono diventare il “male minore” con cui venire a patti, come sta accadendo in Siria con Bashar al-Assad. Resta il fatto, incontestabile, che dall’avvio della “guerra al terrorismo” qaedista, nell’ottobre 2001, l’Afghanistan è un Paese che non sa cosa sia la pacificazione, dove a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga. Un Paese dove imperano milizie jihadiste, “signori della guerra” e califfi eterodiretti; un Paese dove nessuno può dirsi al sicuro. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”. Un “cimitero” dal quale tutti vorrebbero andarsene. Senza, però, dare l’idea di una fuga dalla sconfitta. E per farlo si spaccia per “pace” una resa ai Talebani.