“Il Parlamento israeliano non ha solo votato la fiducia ha un governo. Il Parlamento israeliano ha votato per la morte del dialogo e della legalità internazionale. Quello che si è insediato è un ‘governo dei piromani’, destinato a incendiare la Palestina e a destabilizzare l’intero scenario mediorientale. Non ci sarà pace con l’occupazione e l’apartheid”. E’ la memoria storica dei negoziati con Israele, e l’immagine internazionale della leadership palestinese.
Saeb Erekat ha assunto il ruolo che fu a suo tempo di Yasser Arafat: capo del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). In questa intervista esclusiva concessa a Globalist, Erekat esprime un giudizio durissimo sull’appena nato governo israeliano e anticipa l’”Intifada diplomatica” dei Palestinesi.
A grande maggioranza (73 sì, 46 no) la Knesset (il Parlamento israeliano) ha votato la fiducia al governo Netanyahu-Gantz. È tempo “di aprire un nuovo capitolo nella storia del sionismo”, ha affermato Netanyahu presentando il nuovo governo. Nel discorso di investitura, il premier più longevo nella storia di Israele ha aggiunto che è venuto il momento di estendere la legge israeliana agli insediamenti in Cisgiordania. Secondo il premier, questo passo avvicinerà la pace con i palestinesi e sarà condotto in coordinamento con gli Stati Uniti. Qual è la risposta della dirigenza palestinese?
“Avvicinare la pace? Pur avendolo visto all’opera da più di un decennio, Netanyahu continua a colpirmi per il suo cinismo e per come mistifica la realtà! Ma quando mai un piano di annessione può avvicinare la pace, facendo carta straccia della legalità internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, istituzionalizzando il regime dell’apartheid imposto con la forza nei Territori palestinesi occupati. Netanyahu ha oltrepassato la red line della decenza. Su una cosa, però, ha ragione…”.
Un riconoscimento imprevisto…
“Mi lasci spiegare. Netanyahu ha ragione quando afferma che Israele porterà avanti questo piano di annessione, che suggella la fine di una soluzione ‘a due Stati’, in coordinamento con chi ha dato il via libera a questa scellerata decisione: il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, e i suoi consiglieri, più oltranzisti degli stessi oltranzisti israeliani. Netanyahu non avrebbe mai spinto così in alto l’asticella della provocazione se non avesse avuto la certezza di essere coperto da Washington”.
Ciò significa la fine di quel lungo processo negoziale del quale lei è stato uno dei protagonisti assoluti?
“No, semmai il contrario. E proprio perché crediamo nel negoziato che respingiamo un piano che di fatto distrugge il dialogo. Una visione di pace non può mai significare legittimare le violazioni del diritto internazionale. Il piano del Medio Oriente Peace to Prosperity di Donald Trump, e la sua traduzione da parte del governo israeliano, ha fatto proprio questo. È un piano annessionista che definisce bene la cecità politica, l’arroganza e l’ignoranza dell’attuale amministrazione americana. Mentre sia Israele che l’amministrazione Trump cercano di fuorviare il mondo con le promesse di un “futuro migliore”, resta il fatto che la sinergia ideologica tra i due leader populisti di destra condivide solo una visione: l’apartheid. Questo piano non porterà né pace né prosperità, ma il loro esatto contrario”.
Un j’accuse durissimo…
“Questo piano di annessione è una raccolta di posizioni israeliane, molte delle quali sono state presentate alla lettera dalle controparti israeliane in precedenti negoziati. È un piano negoziato tra coloni israeliani e rappresentanti degli Stati Uniti che sono aperti sostenitori degli insediamenti illegali israeliani nei Territori palestinesi occupati. Quel piano delinea un percorso verso l’apartheid come testimoniato dalla mappa che hanno presentato, e non “due Stati”. Sostenere che l’annessione e la colonizzazione, manifestamente illegali ai sensi del diritto internazionale, dovrebbero essere normalizzati come il risultato del loro piano, costituisce un pericoloso precedente per qualsiasi paese potente per imporre qualsiasi realtà ritenga necessaria, anche in violazione del diritto internazionale. La logica distorta della squadra di Trump suggerisce che raggiungere la pace significa accogliere tutti i desideri degli estremisti israeliani. Il piano sostiene decisamente la perpetuazione dell’occupazione coloniale israeliana in Palestina e la frammentazione della sua terra. Concede a Israele il pieno controllo di Gerusalemme e “legalizza” i suoi insediamenti, il trasferimento della sua popolazione nel territorio palestinese”.
Ma del neonato governo israeliano fanno parte, e con importanti incarichi, anche personalità, come Benny Gantz e il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi (Blu e Bianco), ritenute moderate…
“Forse saranno moderati nei toni, forse rappresenteranno la faccia più presentabile all’estero di questo governo dell’annessione, ma la realtà è un’altra cosa: la realtà è che nel programma di questo governo, condiviso dal signor Gantz, c’è l’annessione della Valle del Giordano e di parti considerevoli della Cisgiordania. Cosa c’è di ‘moderato’ in questo? Il signor Gantz dice di voler discutere di pace con i leader arabi, ma una prima risposta, molto dura ed esplicita, l’ha già avuta da re Abdallah II di Giordania, che certo non può essere tacciato di essere un pericoloso estremista”.
Ashkenazi ha definito il piano Trump “un’opportunità storica” ma questo, ha precisato, non significa promuovere annessioni unilaterali…
“Siamo alla recita del poliziotto buono e di quello cattivo. Definire il piano Trump una “opportunità storica” e poi sostenere che ciò non significa promuovere annessioni unilaterali è arrampicarsi sugli specchi, è un esercizio dialettico riuscito male. Questo governo non ha alcuna intenzione di rilanciare una sera trattativa di pace con i Palestinesi, ma prova a dividere il fronte arabo e la comunità internazionale. Ma se Netanyahu ha fissato pure la data dell’inizio dell’annessione (l’1 luglio prossimo, ndr)!”.
Il presidente Abbas ha annunciato un “contro piano” palestinese. Su quali basi si fonderà?
La nostra visione della pace si basa sulla fine dell’occupazione israeliana, verso il raggiungimento di uno Stato indipendente e sovrano della Palestina ai confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Questa è la concessione storica per la pace che abbiamo fatto nel 1988, accettando il controllo di Israele sul 78% della Palestina storica. Chiediamo una libera Palestina che coesista in pace, sicurezza e prosperità con il resto della regione. Tutte le questioni relative allo status permanente dovrebbero essere risolte in modo equo che rispetti il diritto internazionale e le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite. L’Arab Peace Initiative sarà il punto di accesso per ulteriori relazioni diplomatiche e commerciali tra le varie parti. Garantire che la comunità internazionale sia consapevole di ciò che stanno facendo sia Israele che l’amministrazione Trump non è sufficiente. Salvare le prospettive di pace richiede impegno, ponendo fine all’impunità di Israele, prevenendo la possibilità di annessione e fornendo le condizioni per colloqui significativi basati sui termini di riferimento concordati a livello internazionale per il processo di pace in Medio Oriente. Mi lasci aggiungere che un negoziato non può durare in eterno, altrimenti non di negoziato si tratta ma di una farsa che nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso sarà mai disposto ad avallare. Sappiamo bene quali siano le condizioni di vita nei Territori, sappiamo bene della sofferenza patita dalle nostre sorelle e fratelli della Striscia di Gaza, sottoposti da undici anni all’assedio israeliano, una punizione collettiva che va contro il diritto internazionale e la stessa Convenzione di Ginevra. Non voglio nascondere gli errori commessi dalla dirigenza palestinese, dei quali sento un peso e una responsabilità personali, ma ciò di cui sono, siamo convinti è che solo una Palestina libera in uno Stato indipendente può avere la possibilità di crescere economicamente, di migliorare le condizioni di vita della propria gente. Noi non chiediamo la luna: sappiamo bene che la pace è un compromesso che chiede ai contraenti di rinunciare a una parte delle proprie aspirazioni, dei propri sogni, dei propri diritti. E’ quello che i Palestinesi hanno scelto di fare quando, con Yasser Arafat, hanno abbracciato la soluzione a due Stati, con lo Stato di Palestina da realizzare entro i confini del ’67. Pace in cambio dei Territori, si è detto e scritto. Una pace fondata sul rispetto delle risoluzioni Onu, della legalità internazionale, aggiungo io. Cosa c’è di estremista in questo ragionamento?
Lei fa riferimento ai confini del 67. Ma in cinquantatre anni la realtà è cambiata.
“Assolutamente sì, ma ciò non significa che una pace giusta e duratura possa essere la registrazione di una realtà imposta unilateralmente da una delle parti. Una pace giusta non è la ratifica dei rapporti di forza sul campo. Il nostro “contro piano” ha un altro importante principio su cui si fonda, oltre il rispetto della legalità internazionale: il principio di reciprocità. Se Israele vuole discutere di ritocchi ai confini del ’67, dico: discutiamone. Ma reciprocità non significa accettare da parte nostra l’annessione a Israele di territori della Cisgiordania in cambio di pezzi di deserto. Uno scambio limitato è negoziabile, ma non deve pregiudicare la compattezza territoriale dello Stato di Palestina”.
C’è chi parla di una “intifada diplomatica” da parte palestinese
”Quella che stiamo avviando è un’iniziativa diplomatica a tutto campo, con l’obiettivo di avere il più ampio sostegno internazionale al nostro ‘contro piano’, chiedendo ai Paesi che lo sosterranno di essere pronti a impegnarsi nella sua verifica sul campo, attraverso una forza di interposizione come quella dell’Onu in Libano”.
In questo contesto, cosa si sente di chiedere al governo italiano?
“Un atto di coraggio e di lungimiranza. Riconoscere unilateralmente lo Stato di Palestina nei confini del ’67 e con Gerusalemme Est come capitale. E’ un atto simbolico, certo, ma oggi più che mai avrebbe un grande significato politico di fronte alla strada senza ritorno imboccata da Israele. Se non ora, quando?”.