Globalist lo aveva anticipato ieri con l’intervista al segretario generale dell’Olp (Organizzazione perla liberazione della Palestina), nonché storico capo negoziatore con Israele, Saeb Erekat. Oggi è arrivato il suggello più alto. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha annunciato la fine di tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti e affermato che il primo, come potenza occupante, è responsabile dei territori che occupa. L’annuncio arriva in un momento di particolare tensione, dopo che il governo israeliano ha annunciato l’intenzione di annettersi parte del territorio occupato della Cisgiordania, come del resto prevede il piano di pace proposto da Washington a gennaio.
“L’Organizzazione per la liberazione della Palestina e lo Stato della Palestina sono da oggi esentati da tutti gli accordi e le intese con i governi americano e israeliano e da tutti gli obblighi ivi previsti, compresi quelli di sicurezza”, si legge nella dichiarazione presidenziale, pubblicato dall’agenzia statale Wafa. Abu Mazen esorta Israele ad assumersi i propri obblighi in quanto potenza occupante “con tutte le conseguenze e le ripercussioni basate sul diritto internazionale e umanitario, in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra”. Il che riguarda, aggiunge, le responsabilità per la sicurezza della popolazione civile nei territori occupati e delle sue proprietà, il divieto di punizioni collettive, del furto di risorse, dell’annessione di terra e di trasferimenti di popolazione dall’occupante agli occupati, che “costituiscono gravi violazioni e crimini di guerra”.
Abu Mazen ha aggiunto che Israele dovrà ora “condividere le sue responsabilità e i suoi doveri di fronte alla comunità internazionale, in quanto potere occupante di un territorio che appartiene allo Stato della Palestina”, riporta la Wafa. Allo stesso modo gli Stati Uniti, in quanto “partner principale del governo di occupazione israeliana”, saranno “pienamente responsabili dell’oppressione del popolo palestinese”, ha avvertito Abu Mazen.
Rottura totale
Il presidente palestinese ha ripetuto il netto rifiuto della proposta di pace statunitense e condannato la decisione dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e riconoscere la città come capitale di Israele. Per contro Abbas, come anticipato da Erekat, ha ripetuto il suo appoggio a uno Stato indipendente, contiguo e sovrano nelle frontiere del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, e “una pace giusta e completa basata nella soluzione dei due Stati”.
La “preoccupazione” della Santa Sede
La situazione in Medio Oriente preoccupa la Santa Sede, che in un comunicato informa che monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per le Relazioni con gli Stati, è stato raggiunto telefonicamente dallo stesso Erekat, Il rappresentante palestinese, si legge nella nota, ha voluto informare la Santa Sede “circa i recenti sviluppi nei Territori Palestinesi e della possibilità che la sovranità israeliana venga applicata unilateralmente a parte di dette zone, cosa che comprometterebbe ulteriormente il processo di pace”.
La Santa Sede ribadisce che “il rispetto del diritto internazionale, e delle rilevanti risoluzioni delle Nazioni Unite, è un elemento indispensabile affinché i due popoli possano vivere fianco a fianco in due Stati, con i confini internazionalmente riconosciuti prima del 1967”. La Santa Sede segue inoltre “attentamente” la situazione ed esprime “preoccupazione per eventuali atti che possano compromettere ulteriormente il dialogo”, auspicando che gli israeliani e i palestinesi possano trovare “di nuovo, e presto, la possibilità di negoziare direttamente un accordo, con l’aiuto della comunità internazionale, e la pace possa finalmente regnare nella Terra Santa, tanto amata da ebrei, cristiani, musulmani”.
La freddezza europea irrita Tel Aviv
Pochi festeggiamenti per Tel Aviv che il 17 maggio ha dato il via al nuovo governo Netanyahu-Gantz. L’Unione europea ha concesso giusto qualche parola di congratulazioni per la nascita del nuovo esecutivo e ha preferito concentrarsi sulla possibilità, annunciata dal premier dopo aver ottenuto la fiducia, di estendere la legge israeliana agli insediamenti in Cisgiordania. Secondo il premier israeliano, questo passo avvicinerà la pace con i palestinesi e sarà condotto in coordinamento con gli Stati Uniti. Per l’Ue, invece, l’annessione di “qualsiasi territorio palestinese occupato”, sarebbe “contraria al diritto internazionale“, ha sottolineato il portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell. L’Unione ha espresso molta preoccupazione e ha sollecitato “fortemente Israele ad astenersi da qualsiasi decisione unilaterale”. La soluzione dei due Stati, “con Gerusalemme come capitale futura per entrambi gli Stati – ha aggiunto il portavoce – è l’unico modo per garantire pace e stabilità sostenibili nella regione”.
Non è della stessa idea il ministero degli Esteri israeliano che ha reagito duramente alle dichiarazioni dell’Alto rappresentante. “La diplomazia del megafono non sostituisce il dialogo diplomatico e non farà avanzare il ruolo che l’Ue persegue”, ha dichiarato il portavoce Lior Haiat, citato dal Times of Israel. Ancora una volta, secondo il ministero degli Esteri, l’Unione europea non ha considerato la “condizione di pericolo” in cui si trova il Paese. Ma, anzi, si è concentrata solo sul tema della legge internazionale a proposito del presunto piano israeliano di applicare la sovranità sulla Valle del Giordano e altre zone in West Bank.
Il fattore tempo
Una battaglia cruciale, quella dell’annessione e dell’ampliamento unilaterale dei confini d’Israele, per il primo ministro più longevo nella storia d’Israele, sulla quale si è sempre speso considerandola la sua eredità storica. Gantz vorrebbe prendere tempo, ma per Netanyahu e il suo indefesso sostenitore americano, l’amico Trump, è tempo di azione. E di annessione.
E il tempo è un fattore chiave anche dalle parti di Ramallah . Il rischio, confidano a Globalist autorevoli fonti vicine ai massimi livelli della dirigenza palestinese, è che il governo israeliano, col sostegno americano, mettano il tutt’altro che compatto schieramento arabo di fronte al fatto compiuto, e a quel punto, secondo la fonte, verrebbero a galla le divisioni esistenti, dietro alle quali vi sono mire regionali di potenza che dividono il fronte sunnita, guidato dall’Arabia Saudita, a quello sciita, con l’Iran in testa. Per decenni, i leader arabi e musulmani hanno affermato che qualsiasi accordo con Israele avrebbe dovuto contemplare un ritiro delle forze israeliane dai Territori palestinesi, e l’istituzione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme est come capitale. Ma gli stessi leader arabi che, a parole, continuano a sostenere questa linea, fuori dall’ufficialità non mancano di manifestare la loro irritazione verso la chiusura della dirigenza palestinese a scendere a compromessi su questi punti. Una chiusura che ha impedito, o comunque rallentato, la volontà di quei leader a rafforzare i legami con Israele, vuoi per affari, vuoi, vedi l’Arabia Saudita e le monarchie sunnite del Golfo, in funzione di un contenimento dell’espansionismo iraniano e sciita sulla direttrice Damasco-Baghdad-Beirut. E Gaza.
I regnanti sauditi come i petromonarchi del Golfo hanno fatto pressioni sui leader palestinesi perché accettassero il piano Trump come base per nuovi colloqui con Israele, una mossa che li avrebbe costretti a fare concessioni significative, come l’annessione israeliana della Valle del Giordano.
Il tono modificato nelle capitali arabe è un riflesso delle mutevoli relazioni nella regione, dove le nazioni ufficialmente in guerra con Israele stanno rafforzando i legami con le sue compagnie e figure di spicco. L’erede al trono saudita, il principe Mohammed bin Salman, ha elogiato pubblicamente Israele e ha minimizzato privatamente l’importanza della questione palestinese, hanno rivelato fonti diplomatiche della regione. Dire un “no” diretto all’amministrazione americana ha conseguenze che molti stati arabi non sono disposti a sopportare. Ed è indicativo che le prese di posizioni più dure contro la “Truffa del secolo” siano venuti dai leader di paesi non arabi, ma con velleità di potenza regionale: la Turchia e l’Iran.
In un’intervista a Der Spiegel, re Abdullah II di Giordania ha avvertito: “Se Israele annettesse davvero la Cisgiordania a luglio, ciò porterebbe a un conflitto enorme con il Regno hascemita di Giordania”, aggiungendo che non era il momento giusto per discutere una soluzione a uno stato al conflitto israelo-palestinese, a cui l’annessione potrebbe portare, e invitando i paesi della regione a lavorare insieme contro il Coronavirus. Ma Amman sa bene che se quel piano verrà accantonato, cosa improbabile, o almeno rinviato nel tempo, come vorrebbe Gantz, attualmente ministro degli esteri, la partita si giocherà essenzialmente sull’asse Washington-Gerusalemme-Riyadh, allargata al massimo al Cairo.
Ed è in questo scenario, in continuo movimento, che è maturato l’annuncio del presidente palestinese. Per qualcuno è un azzardo, una mossa disperata, per altri è una scelta obbligata. Una cosa è certa, per dirla con le parole di Saeb Erekat: “Israele ha un governo, ma non avrà pace”.