Il “Pinochet del Bosforo” conquista la Libia. E fa “pulizia” in casa. Inarrestabile Erdogan. Inarrestabile e pericoloso. Perché il suo disegno neoimperiale destabilizza il Mediterraneo, ricatta l’Europa, taglia fuori dalla partita petrolifera (non solo libica) l’Italia. E tutto questo, con le patrie galere riempite di oppositori.
Erdoganistan
La Turchia non esiste più. Al suo posto è nato l’”Erdoganistan”, un Paese senza libertà né diritti, retto da un regime islamo-nazionalista che sfruttando uno pseudo golpe ha realizzato il disegno che covava da tempo: risolvere manu militari il problema curdo, azzittire la stampa indipendente, riempire le patrie galere di giornalisti, professori universitari, funzionari pubblici, attivisti dei diritti umani. E ora anche di parlamentari dell’opposizione
L’ultimo episodio è di queste ore: tre parlamentari turchi di opposizione sono stati arrestati la scorsa notte, poche ore dopo essere stati destituiti dal Parlamento di Ankara a seguito di condanne in differenti processi. Le opposizioni denunciano un “golpe contro la volontà popolare e la democrazia” da parte della maggioranza di governo di Erdogan. Le manette sono scattate dopo che la decisione della Grande assemblea di Ankara, accolta fra vibranti proteste dell’opposizione in aula, ha fatto decadere la loro immunità. Gli ex deputati arrestati sono Enis Berberoglu del socialdemocratico Chp, prima forza anti-Erdogan, e due parlamentari del filo-curdo Hdp, Leyla Guven e Musa Farisogullari. Berberoglu aveva subito dichiarato di essere pronto a costituirsi per scontare il resto della sua pena. Il parlamentare destituito del Chp era stato condannato con l’accusa di essere la fonte dello scoop del 2015 del quotidiano Cumhuriyet sul passaggio in Siria di un tir di armi dei servizi segreti turchi.
Venne liberato dopo oltre un anno in carcere. Contro la detenzione il suo partito aveva organizzato nell’estate 2017 la ‘marcia per la giustizia’ da Ankara a Istanbul, cui parteciparono centinaia di migliaia di persone. Guven e Farisogullari erano invece stati condannati rispettivamente a 6 anni e 3 mesi e a 9 anni di prigione con l’accusa di presunta “appartenenza a un’organizzazione terroristica armata”, il Pkk curdo.
Le statistiche delle purghe in corso in Turchia sono sconvolgenti. Il giorno dopo il fallito golpe del 16 luglio 2016, il governo Erdogan ha licenziato 2.745 giudici, un terzo del totale. Non molto tempo dopo circa centomila funzionari pubblici, insegnanti e giornalisti hanno perso il lavoro. Il numero è oggi incredibilmente elevato: 182.247 funzionari, insegnanti e accademici statali licenziati, 59.987 arrestati. All’interno delle carceri, gli incontri tra detenuti e avvocati sono strettamente limitati e le loro riunioni attentamente monitorate, compromettendo inevitabilmente una difesa efficace. Non sono autorizzati contatti con l’esterno, fatta eccezione dei parenti più stretti, con i quali possono comunicare una volta a settimana, attraverso una finestra di vetro o via telefono. Grazie allo stato d’emergenza, il presidente-gendarme, che dopo la vittoria nel contestato referendum costituzionale ha avocato a sé tutti i poteri esecutivi, può in qualsiasi momento ordinare isolamenti, detenzioni, chiusure di organizzazioni e istituti, sequestri di proprietà private, coprifuochi. Il costo umano di queste purghe è elevatissimo.
Europa complice
E tutto questo avviene con la complicità dell’Europa. Complicità, non silenzio. Perché di parole ne sono state utilizzate tante ad accompagnare le retate, le epurazioni, gli arresti di massa, lo scempio di qualsiasi diritto umano e civile, che scandiscano dal post-15 luglio la quotidianità della Turchia retta dal “Sultano di Ankara”. Quelle parole sono un insulto a quanti nell’”Erdoganistan” si sono battuti e continuano a battersi per i diritti delle minoranze, perché non siano azzerate quelle istanze di libertà, in ogni sfera della vita politica, sociale, dei costumi sessuali, di un Paese che oggi è sotto il tallone di una dittatura spietata. Una dittatura finanziata dall’Europa. Perché questa è la realtà. Vergognosa. Indecente. Perché i leader Europei non hanno solo chiuso gli occhi di fronte alle decine di migliaia di funzionari pubblici, di accademici, di quadri, di insegnanti dell’esercito, epurati da Erdogan, non solo non hanno raccolto gli appelli dei giornalisti incarcerati o zittiti o costretti all’esilio dal regime, ma quel regime hanno innalzato a interlocutore privilegiato nell’unica cosa che conta oggi nell’Europa dei muri, delle frontiere blindate, dei respingimenti forzati, degli hotspot-lager: fare della Turchia di Erdogan il “Gendarme” delle frontiere esterne. Perché l’unico timore che questa Europa indegna di definirsi democratica ha, è quello che il “Sultano di Ankara” apra i “rubinetti” dei migranti e ritorni a popolare le rotte della morte, a cominciare da quella balcanica. Al “Gendarme” turco l’Europa della vergogna ha promesso 6 miliardi di euro, sottoscrivendo un accordo nel quale non c’è una riga, non c’è alcun riferimento, non c’è alcun vincolo che riguardi il rispetto degli standard minimi di democrazia. Niente. E niente è stato fatto dopo che il “Sultano” osannato dalla folla ha promesso il ripristino della pena di morte e ottenuto il via libera per l’arresto di parlamentari nel pieno delle loro funzioni.
Tra le libertà conculcate c’è quella all’informazione. Racconta a “Radio Popolare” l’intellettuale e giornalista turco Ahmet Insel. Laureato alla Sorbona, ex docente universitario, Insel è editorialista del quotidiano turco” Cumhuriyet”, falcidiato dagli arresti del regime, e dirige la casa editrice Iletisim. E’ autore del volume “La nouvelle Turquie d’Erdogan, Du rêve démocratique à la dérive autoritaire (Francia, 2016)”: “Le cose in Turchia sono peggiorate, grosso modo, da quattro anni. Le proteste di Gezi Park nel 2013 hanno creato panico nel governo: da quel momento ha voluto controllare la stampa sempre di più. E dato che i media della confraternita Gülen hanno attaccato sempre di più il governo, Erdogan ha cominciato a vedere nella stampa il pericolo principale. Questo processo – rileva Insel – era già cominciato prima del tentativo di colpo di stato del luglio 2016. Dopo il colpo di stato, l’attacco alla stampa è diventato generale e ha coinvolto anche la stampa di sinistra e la stampa curda. Non si tratta solo di pressioni o di chiusura dei giornali o delle televisioni, ma si è passati direttamente all’arresto dei giornalisti. A partire dal 2011 la situazione è ulteriormente peggiorata e dopo il colpo di stato del 2016 – con l’imposizione dello stato di emergenza – non abbiamo più libertà d’espressione in Turchia. Esiste oggi in Turchia una democrazia aleatoria, arbitraria”.
Ecco cosa è oggi la Turchia di Erdogan: un Paese sotto il tallone di ferro di un regime islamo-nazionalista che tratta ogni oppositore come una minaccia alla sicurezza dello Stato. E se lo combatti con la forza delle idee e con i tuoi scritti sei ancora più pericoloso. Lo sa bene Asli Erdogan, cinquant’anni appena compiuti, autrice pluripremiata e tradotta in 17 lingue (in Italia con Il mandarino meraviglioso, ed. Keller), diventata il simbolo delle centinaia di intellettuali colpiti dalla repressione nella Turchia post-golpe. Lei in carcere ha trascorso 136 giorni con l’accusa di “terrorismo”. “Devo quel po’ di libertà che ho adesso al sostegno internazionale – sottolinea la scrittrice in una recente intervista -. Senza questo, probabilmente sarei rimasta in prigione e, se non fossi morta, anche per le mie condizioni di salute, sarei stata rilasciata con tante scuse solo dopo anni. Ormai lo stato di diritto non esiste più. Può accadere qualsiasi cosa. Tantissimi giudici sono in galera. Può toccartene uno di 25 anni, che magari cerca di fare buona impressione sul suo capo, o semplicemente di non finire a sua volta sotto accusa: è molto difficile credere ancora nella giustizia. Il mio è stato uno dei casi più ridicoli e kafkiani. E credo sia un messaggio per tutti gli intellettuali: state lontani dai curdi (Asil non lo è ma si batte per i diritti delle minoranze, ndr), o vi tratteremo come loro”. Chiunque non si adegua al regime diventa un nemico da neutralizzare.
Mani sulla Libia
Il presidente del Governo di accordo nazionale (Gna) , Fayez al- Sarraj, ha annunciato che le forze a lui fedeli hanno preso il controllo della capitale libica, Tripoli, respingendo le milizie fedeli al generale di Tobruk, Khalifa Haftar. L’annuncio è arrivato, non casualmente, in occasione della visita di Sarraj ieri ad Ankara, dove ha incontrato il presidente turco che lo ha sostenuto politicamente, ma soprattutto militarmente, attraverso l’invio di consiglieri, istruttori militari e materiale bellico, oltre che di migliaia di mercenari.
Erdogan si è detto felice per la vittoria ottenuta da Tripoli e ha ribadito la legittimità del governo di Sarraj, insistendo per una soluzione politica alla crisi, che con la supervisione dell’Onu garantisca unità territoriale e stabilità alla Libia. Il presidente turco ha definito Haftar “un golpista” e un “criminale di guerra”, indicato come “il principale ostacolo” a una soluzione pacifica del conflitto dopo aver causato “un bagno di sangue”, sostenuto da Egitto, Russia, Francia ed Emirati arabi, che saranno “giudicati dalla storia”. Soprattutto Erdogan ha ribadito che le intese stipulate con Sarraj lo scorso novembre diventeranno sempre più ampie, sia per quanto riguarda la cooperazione militare che lo sfruttamento da parte della Turchia delle acque a sud di Cipro: “Il nostro obiettivo è far progredire la nostra cooperazione, tra cui l’esplorazione e la perforazione, per beneficiare delle ricchezze naturali nel Mediterraneo orientale”.
Erdogan ha anche annunciato un nuovo accordo tra i due governi per impedire esportazioni illegali di petrolio da parte di Haftar. Un tema su cui i due leader sono, secondo Erdogan, “sulla stessa linea d’onda” e rispetto al quale il presidente turco ha invocato l’intervento della comunità internazionale.
“Continueremo la nostra lotta fino all’annientamento del nemico in Libia. Non accetteremo alcun negoziato con Haftar”, ha dichiarato al-Sarraj, promettendo già a Erdogan la ricompensa per “la sua storica e coraggiosa posizione” con l’assicurazione di voler “vedere le imprese turche in Libia durante la fase di ricostruzione”.
A Tripoli regna la legge del Sultano. E tra poco, a guerra vinta, regneranno le imprese turche. Che scalzeranno quelle italiane. Per noi in Libia è game over. Qualcuno lo comunichi al duo Conte&Di Maio.