In un articolo di qualche mese fa riferivo della nascita di una rete mondiale dell’ebraismo progressista, sotto la spinta dell’erosione della democrazia in Israele, della negazione dei diritti dei palestinesi ad un’esistenza indipendente, dei propositi di annessione di parti della Cisgiordania, nonché della marea montante di intolleranza e pulsioni antisemite in più paesi del mondo.
Questo lavoro di tessitura ha prodotto un risultato importante: si è formato J-Link che raggruppa uno spettro ampio di organizzazioni ebraiche progressiste. Negli Stati Uniti, in Europa , in Canada, in Sud Africa , in America del Sud , in Australia e in Israele.
Il primo atto pubblico è stato l’invio di una lettera aperta contro il proposito di annettere una parte rilevante, circa un terzo, della Cisgiordania, senza una trattativa con i palestinesi, in contrasto con le risoluzioni dell’Onu e il diritto internazionale. Con una maggioranza semplice del Parlamento, una decisione siffatta porrà fine alla possibilità di una soluzione “a due stati “ del conflitto .
Le implicazioni saranno dirompenti. Soprattutto la Giordania fortemente popolata di palestinesi, in particolare rifugiati, potrebbe essere percorsa da un’onda di instabilità e costretta a rivedere il trattato di pace che la lega ad Israele dal 1994. L’appello rivolto al mondo ebraico è stato già sottoscritto da 50 organizzazioni ebraiche progressiste, alcune minuscole, altre importanti internazionalmente quali J street, Jcall o il New Israel Fund. Sarà trasmesso alle comunità e istituzioni ebraiche dei paesi rappresentati e alle Ambasciate di Israele in circa 30 nazioni con una richiesta di incontro con l’ambasciatore in loco perché ne riferisca in merito a Gerusalemme.
La comunità internazionale, i paesi della Ue in primis, difenderanno la soluzione “a due stati”; quanto agli atti concreti, al di là della diplomazia “dichiarativa”, la Ue dispone di mezzi di pressione non irrilevanti.
L’impegno ad applicare la direttiva convalidata dalla sentenza della Corte di giustizia europea circa l’esigenza di etichettare in modo corretto le produzioni degli insediamenti (non “made in Israel”) in conformità con il principio di una distinzione netta fra gli insediamenti, illegali, e lo stato di Israele.
La conferma delle regole introdotte nel 2013 che escludono l’erogazione di prestiti o doni finanziari a entità operanti negli insediamenti. Nell’ambito della ricerca scientifica, sotto l’egida di Horizon Europe, la decisione di escludere dalla fruizione di contributi agenzie o istituzioni pubbliche insediate nei territori. La Ue potrebbe reagire inoltre con maggiore vigore alle confische, demolizioni di case, ordini di espulsione di palestinesi da Gerusalemme est o altre aree della Cisgiordania.
Ma è il futuro di Israele che ci sgomenta di più. Dei costi distruttivi dell’occupazione sulla società, siamo consapevoli da tempo. Con l’annessione, l’attuale sistema legale, doppio e separato, che opera nei territori distinguendo i coloni israeliani soggetti alla legge israeliana e gli abitanti palestinesi soggetti ad un regime militare, troverà una sanzione sul piano normativo: Israele sarà uno stato che discrimina ufficialmente i palestinesi, sulla base di un principio di appartenenza etnica, privandoli di diritti civili e politici, violando gli stessi dettami di eguaglianza sanciti dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948 che sono a fondamento della genesi e della storia dello stato.