Palestina e l'annessione israeliana. Hamas gioca la carta della resistenza, l'unica che lo legittima
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Palestina e l'annessione israeliana. Hamas gioca la carta della resistenza, l'unica che lo legittima

Il conto alla rovescia è iniziato. E in vista dell’avvio del piano di annessione del 30% della West Bank, in campo palestinese si è aperta la sfida per la conquista della leadership della “resistenza”.

Proteste palestinesi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Giugno 2020 - 16.37


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Il conto alla rovescia è iniziato. E mentre Israele rafforza la sua presenza militare a Gerusalemme Est e in Cisgiordania in vista dell’avvio, il 1° luglio, del piano di annessione del 30% della West Bank, in campo palestinese si è aperta la sfida per la conquista della leadership della “resistenza”. Ed è Hamas ad anticipare tutti.  Il movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza, ha lanciato ieri un appello all'”unità” e alla “resistenza” dei palestinesi contro il piano israeliano “Chiediamo di affrontare il progetto di annessione mediante la resistenza in tutte le sue forme e al nostro popolo di trasformare questa prova in un’opportunità  per rimettere in carreggiata il progetto palestinese”, ha affermato un alto funzionario di Hamas, Salah al-Bardawil, in una conferenza stampa a Gaza. Al contempo, in una nota pubblicata l’8 giugno, il portavoce del movimento, Hazem Qassem, ha espresso il proprio apprezzamento verso coloro che hanno già manifestato il loro rifiuto al piano di annessione. Tuttavia, è stato affermato, ciò non basta, in quanto la cosiddetta “entità sionista” potrebbe non tener conto della volontà internazionale e infrangere ancora una volta la legge.

Nemico di comodo

Quella che si sta riproponendo, sul versante palestinese, è la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell’indirizzare contro l’occupante con la Stella di David, la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo. Ciò che si sta per realizzare, chiama in causa i due “Nemici” che, ognuno per i propri tornaconti, hanno lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. Perché “compromesso” è una parola che non esiste sia nel vocabolario politico della destra israeliana sia in quello di Hamas. Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell’altro. Compromesso significa rinuncia ai disegni della “Grande Israele” come della “Grande Palestina”. Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i Palestinesi. Combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra Israeliani e Palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante.  Nello schema di Hamas e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas per coltivare l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. Quanto ad Hamas può al massimo contemplare una “hudna” (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza.

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Hamas prova a giocare d’anticipo, tenendo  conto di un processo che sta venendo avanti dentro la società palestinese, soprattutto tra le giovani generazioni: non delegare più alle organizzazioni storiche – Hamas, al-Fatah – la resistenza, praticando quella che Hanan Ashrawi, storica dirigente palestinese, indica come “la terza via tra rassegnazione e militarismo: la via della resistenza popolare non violenta”, tornando così alle origini, alla prima Intifada, alla “rivolta delle pietre”, quella che portò agli accordi di Oslo-Washington.

Ciò che oggi rimane ai palestinesi  – rimarca Ugo Tramballi, tra i più acuti analisti della realtà israeliana e palestinese – è un vergognoso piano di pace preparato dalla famiglia Trump, che permette un’annessione parziale di altri territori palestinesi. Parziale ma definitiva: se realizzata, renderà fisicamente impossibile uno stato palestinese territorialmente continuo, sostituito da un bantustan alla sudafricana dei tempi dell’apartheid. Piccole isole di autonomia circondate dai carcerieri, dentro le quali i carcerati potranno fingere di autogovernarsi….”.

Gaza, quella prigione dimenticata

L’attenzione sarà concentrata  sulla Cisgiordania, dimenticando  la tragedia di Gaza, una prigione dimenticata e che torna a fare notizia quando si fa la conta dei morti, quando torna ad essere un teatro di guerra. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare. Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità.  Ed è nella “normalità” che Gaza muore. Nel silenzio generale, nel disinteresse dei mass media, nella complicità della comunità internazionale, nella pratica disumana e illegale delle punizioni collettive perpetrate da Israele, nel cinico operare di Hamas, Gaza sta morendo.

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Un documentato grido d’allarme è stato lanciato da Oxfam. L’assedio sta privando una popolazione di 1,900milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua. A sei anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni dei quasi 2 milioni di abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo. Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata degli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 1,9 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione. Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi)  a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.

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Save the Children considera Gaza invivibile già oggi: con le condizioni attuali i bambini non riescono più a nutrirsi adeguatamente, dormire, studiare o giocare. La mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non più utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate, l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche. La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità. Tutti conoscono la realtà di Gaza, la tragedia umana che in essa si consuma.  Ma questa consapevolezza non porta alla ricerca di un accordo, di una pace giusta, duratura, tra pari. Non impone rinunce per ridare speranza. Costa meno combattere, perché, tanto, a chi vuoi che possa interessare la sorte di due milioni di persone ingabbiate nella prigione chiamata Gaza.

Ed ora la storia sembra ripetersi. Hamas vive se pratica la resistenza armata. Il “governo dell’annessione” israeliano ha bisogno di un nemico che giustifichi il pugno di ferro. I falchi si legittimano a vicenda.

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