Palestina, in ordine sparso contro l'annessione. Un regalo per "King Bibi" Netanyahu
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Palestina, in ordine sparso contro l'annessione. Un regalo per "King Bibi" Netanyahu

Divisioni nel campo palestinesi e indifferenza della maggior parte dei Paesi arabi, e soprattutto quelli ancora in grado di esercitare una certa influenza

Abu Mazen
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

21 Giugno 2020 - 14.44


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Ali al-Jirbawi, ex ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e docente di Scienze politiche alla Bir Zeit University, in Cisgiordania, non ha dubbi: “L’Anp è in trappola”. E spiega:  “Il nostro errore fondamentale,è stato quello di continuare i negoziati con Israele dopo il 1999, anno in cui si sarebbe dovuta concludere la fase finale degli Accordi di Oslo e si sarebbe dovuto creare uno Stato palestinese”.

L’Anp, rimarca al-Jirbawi, non ha subordinato la continuazione dei negoziati a un rigido calendario e al congelamento di tutte le costruzioni israeliane nei territori. L’Anp avrebbe dovuto anche opporsi alla divisione geografica della Cisgiordania in aree A, B e C. Eppure, rispetto alla situazione attuale, ha detto, a quel tempo, “almeno c’era speranza per la creazione di uno Stato palestinese e per la soluzione dei due Stati”.

In trappola

Ma ora, con Israele che liquida sia la soluzione dei due Stati sia l’idea di uno Stato unico e binazionale, l’Anp non ha più opzioni, continua Jirbawi: “È impossibile smantellare l’Anp, ed è impossibile ritirarsi dagli accordi [che sono stati firmati con Israele]”.

Per lui, come per molti dirigenti palestinesi, l’idea di smantellare l’Anp è diventata priva di senso, in quanto, se attuata, significherebbe eliminare la più grande conquista dei palestinesi negli accordi di Oslo. Quando il presidente palestinese Mahmoud Abbas inizia a pensare ad alta voce alla possibilità di dimettersi e di lasciare le chiavi dell’Anp sul tavolo di Israele, sta essenzialmente minacciando Israele di doversi assumere la responsabilità di gestire direttamente la Cisgiordania. Ciò significherebbe dover gestire i problemi sanitari, educativi e ambientali dei palestinesi, pagare gli stipendi dei 150.000 dipendenti dell’Anp in Cisgiordania e garantire anche la continuazione dei trasferimenti monetari verso la Striscia di Gaza, che attualmente vengono effettuati dall’Anp, anche se in modo limitato. Allo stesso tempo, però, Abbas comprende anche che smantellare l’Anp significa licenziare decine di migliaia di persone, infliggere danni economici mortali alla Cisgiordania e, soprattutto, perdere il potere di rappresentanza.

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L’indifferenza araba

Nel frattempo, tutto questo sta accadendo in un periodo in cui la maggior parte dei Paesi arabi, e soprattutto quelli ancora in grado di esercitare una certa influenza sugli eventi politico-diplomatici – come l’Arabia Saudita, gli Emirati o l’Egitto – stanno mostrando indifferenza verso la situazione dei palestinesi, o si accontentano di ammonimenti, come quello fatto da Yousef Al Otaibah, ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, in un articolo pubblicato su Yedioth Ahronoth la scorsa settimana.

Da parte sua, anche il re di Giordania Abdullah II, il leader arabo più preoccupato per la possibile annessione dei territori da parte di Israele, e feroce oppositore del piano di pace Trump, ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti da una tale mossa. Tuttavia, al momento, né Israele né gli Stati Uniti sembrano inclini a prestare attenzione ai suoi avvertimenti. Alcuni sostengono che le dichiarazioni del re non sono rivolte solo a Israele, ma anche all’Anp.

“Il grido di re Abdullah mostra rabbia nei confronti di Israele e rimprovero alla leadership palestinese per non aver fatto alcun passo concreto per affrontare il piano di annessione … I palestinesi non sono di fronte a una prova, ma a una Nakba. Non sarà solo una Nakba palestinese, e le sue conseguenze non saranno confinate sul suolo palestinese”, ha scritto il giornalista Faiz Abu Shamala su Rai al-Youm, un sito di notizie e opinioni digitali del mondo arabo.

L’esito, ha aggiunto, rischia di essere dannoso per la Giordania, ma invece di lanciare un avvertimento a Israele che potrebbe trovarsi in rotta di collisione con il regno hashemita, ha osservato Shamala, sono i palestinesi stessi a doverlo dire.

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“Non c’è bisogno che il popolo giordano sia più arabo e più palestinese della leadership palestinese”, ha scritto. “Coloro che hanno mangiato i frutti dell’Anp per decenni dovrebbero ora fertilizzare il suolo palestinese con i loro profitti e le loro conquiste”.

Nel frattempo, l’Anp sta conducendo una duplice lotta: contro l’annessione e contro i benefici politici che Hamas spera di ottenere. Una lettera del leader di Hamas Ismail Haniyeh al segretario generale della Lega Araba Ahmed Aboul Gheith – chiedendogli  di convocare urgentemente un incontro al vertice arabo per discutere la possibilità di un’annessione – ha suscitato le dure critiche dell’Anp e dei membri di Fatah, che hanno sostenuto che Haniyeh non è autorizzato a fare una tale richiesta, in quanto non rappresenta un organismo ufficialmente riconosciuto o uno Stato. Abbas, da parte sua, si è accontentato di corrispondere con tre dei quattro membri del Quartetto – Russia, UE e Nazioni Unite (ma non gli Stati Uniti) – chiedendo loro di fare pressione su Israele per far deragliare lo schema di annessione.

“In questa fase non siamo in grado di identificare i preparativi in corso sul campo prima di un’intifada”, dice ad Haaretz un alto funzionario delle forze di sicurezza che si occupa del fronte palestinese. “L’Anp  sta facendo molto nel campo della diplomazia internazionale, sta coltivando i suoi legami con la Russia e la Francia, è sostenuta dalla Germania, che si oppone con veemenza all’annessione, ma non c’è al momento nessuna preparazione nell’Anp per il proprio smantellamento o per la gestione di una lotta violenta organizzata”.

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Il problema è che l’Anp non ha alcun controllo sulle iniziative di Hamas, della Jihad islamica o degli “imprenditori” privati che rischiano di toccare con mano gli scontri violenti che potrebbero trasformarsi in una rivolta più ampia. Secondo il giornalista giordano Ziyad Fahim al-Atari, c’è poca probabilità di una terza intifada perché l’opinione pubblica palestinese si preoccupa di questioni più immediate ed esistenziali e di mantenere i risultati raggiunti, soprattutto di natura economica. Inoltre, non esiste una strategia nazionale che possa mobilitare un gran numero di persone per scendere in piazza. E, infine, attualmente, le attività pubbliche diffuse potrebbero essere limitate dalla paura del coronavirus.

 

Hamas  ufficialmente ha assunto una posizione diversa. Il vice di Haniyeh, Saleh al-Arouri, ha detto lunedì scorso in un’intervista alla rete televisiva Al-Aqsa di Hamas: “Sosteniamo tutti gli sforzi politici e diplomatici intrapresi dall’Anp. Ma contiamo sul fatto che il movimento delle masse si trasformi in una rivoluzione popolare contro l’occupazione ovunque, più che sull’azione politica e diplomatica”.

 

A quanto pare Arouri allude all’intenzione di Hamas di coordinare le sue attività con l’Anp e di creare una “divisione del lavoro”, tra sforzi diplomatici e mobilitazione militare. Ma questo non è necessariamente il modo in cui la leadership di Gaza vede le cose. Haniyeh ha detto recentemente che “non stiamo prendendo veramente sul serio gli incontri che si sono svolti [tra Hamas e Fatah] in passato, per cui ogni invito a un incontro che non sia serio e non adotti una strategia nazionale non è utile in questo momento”. Queste osservazioni non erano rivolte solo alla leadership del movimento Fatah, ma riflettono anche il disaccordo all’interno di Hamas.

 

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