Emir Suljagic è uno dei (pochi) maschi bosniaci musulmani sopravvissuti all’assedio e caduta di Srebrenica. Rifugiatosi nella cittadina della Bosnia orientale all’inizio della guerra, era diventato interprete dei caschi blu grazie al fatto di parlare inglese. Il suo libro Cartolina dalla fossa, pubblicato in Italia da Beit edizioni nel 2010, è una sorta di diario della vita nell’enclave vista attraverso gli occhi di un adolescente. Ve ne proponiamo alcuni frammenti.
“Vengo da Srebrenica. In realtà vengo da un altro posto, ma ho scelto di essere di Srebrenica. Solo da lì sento di venire, come solo lì me la sono sentita di andare, in un momento in cui non potevo andare da nessun’altra parte. (…) E’ stata una cosa sporca, molto più sporca che in qualsiasi altra parte della Bosnia ed Erzegovina. I serbi ci trattavano come animali e noi, dopo un certo tempo, cominciammo a comportarci come animali. Fummo ricacciati in una società primordiale, priva di leggi. (…) Non fu uno scontro tra due civiltà convinte che la propria salvezza consisteva nello sconfiggere l’altra. No, è stata una guerra nella quale, noi bosniaci, eravamo stati condannati a morte in anticipo”.
(…) “Ho notato che la fame aveva completamente alterato la mia personalità. Dal ragazzo, che prima della guerra era timido e riservato, ero diventato aggressivo e senza scrupoli. Questo mi ha spaventato, ma ho capito subito che si trattava di una mera questione di sopravvivenza. Ci lanciavamo sui pacchi paracadutati dall’Onu sbranandoci come lupi che sentono l’odore del sangue. Mio zio fu ucciso da una pallottola in fronte in una di queste risse: l’assassino non venne mai punito, c’era solo la legge del più forte». (…) Per chi come me è sopravvissuto tutti i sentimenti sono incompleti… per qualche motivo solo là, tra i ricordi, tra le ombre, mi sento meglio”
Suljagic racconta l’attacco dei musulmani bosniaci al villaggio serbo di Kravice, il 7 gennaio 1993, la Notte del Natale ortodosso. L’attacco si concluse con molte vittime serbe e a Srebrenica nessuno ebbe compassione o pietà per quelle vittime. “Sia come sia, quella si rivelò una macchia sulla nostra vittoria, altrimenti pura come un cristallo”, afferma l’autore ed evidenzia: “Anche quello era un segnale inconfutabile che stavamo diventando sempre più simili ai serbi, a ciò che loro erano, ossia a ciò che loro desideravano noi diventassimo. Forse questo avvenne prima che chiunque se lo aspettasse, ma era inevitabile che le vittime – ma questo è solo il mio pensiero – in quelle circostanze iniziassero a somigliare al carnefice.”
Suljagic descrive la gente arrivata a Srebrenica: “Ogni sera si addormentavano con l’idea che l’indomani qualcuno li avrebbe soccorsi, rimediando il terribile torto per il quale stavano soffrendo, che l’ingiustizia si sarebbe risolta e che l’incomprensibile indifferenza del mondo per le loro sofferenze non poteva essere reale. (…) Indipendentemente dal sesso e dall’età, dalla posizione sociale e dalla ricchezza, dalla cultura e dall’educazione, aspettavano ogni mattina, in lunghe code, e tremavano dal freddo. Se ne stavano là, chiacchierando con i vicini benché fossero quasi sempre degli estranei – anche se, a un certo punto, ci saremmo tutti conosciuti a vicenda. (…) La gente veniva da tutta l’enclave per avere l’opportunità di parlare tramite i radioamatori della città, con i propri parenti e amici altrove. «Si entrava in una stanza con un microfono e in sottofondo si potevano ascoltare le conversazioni. Sono andato anch’io ma non ho mai sentito nessuno dire: “Ti amo”. Eravamo così pieni di vergogna che non osavamo pronunciare la parola amore, un amore che restava tutto concentrato e inespresso in quella stanza male illuminata, nella penombra, una sala grigia con le sbarre alle finestre”.».
(…) “Cominciarono separando gli uomini dalle donne, il segnale che dava inizio alla mattanza. Sapevo cosa sarebbe accaduto dopo, avevano fatto lo stesso nella mia città Bratunac, nel ’92, dove mio padre era stato ucciso da una granata. Con il resto della mia famiglia, avevo 17 anni, c’eravamo rifugiati a Srebrenica proprio perché protetta dall’Onu».
Emir incontrò Ratko Mladic il 12 luglio a Potocarì, dove oggi sorge il memoriale. «Ero andato lì come traduttore dell’Onu ma fui lasciato solo davanti a lui. Il generale mi squadrò e prese la mia carta d’identità, chiedendomi se avessi già fatto il servizio militare. Tremavo di paura. Fece qualche passo intorno, poi si voltò ancora verso di me. Gli chiesi di riavere i documenti. Pensavo che mi avrebbe ucciso con gli altri e non volevo diventare un cadavere senza nome in una fossa Sono ancora qui perché Mladic si sentiva come Dio: aveva potere di vita e di morte su tutti. Per lui ero un essere insignificante, un insetto che avrebbe potuto schiacciare in qualunque momento come fece con altri mille e mille ragazzi».