Leggete con attenzione questo articolo. Consiglio rivolto soprattutto a quanti, leoni da tastiera, accusano di antisemitismo chiunque osi accostare al nome Israele quello di “apartheid”.
Leggete con attenzione questo scritto, pubblicato dal Jerusalem Post, giornale israeliano vicino alla destra, e rilanciato in Italia da Globalist, perché l’autore è uno che l’apartheid sudafricano lo ha conosciuto da vicino: l’ex ambasciatore israeliano in Sudafrica Ilan Baruch
“Nel giro di un paio d’anni – scrive Baruch – l’annessione dei territori si è trasformata da una visione distorta propria di frange minoritarie della destra israeliana alla politica dichiarata del governo israeliano. La sconcertante decisione di Blue e White e del Labor di unirsi al governo di Netanyahu ha alimentato l’illusione dell’opinione pubblica che una tale mossa fosse possibile. Molti di noi scrollavano le spalle e dicevano: “’In realtà, perché no?’ Così, senza comprendere appieno le implicazioni per il nostro futuro, la destra israeliana, con Netanyahu al timone, ha ‘commercializzato’ uno dei maggiori pericoli per lo Stato di Israele come ‘una conquista legittima’ senza dire all’opinione pubblica che una tale dichiarazione unilaterale di annessione e la legislazione ad essa collegata avrebbero installato un regime di apartheid in Israele”.
Ma l’idea dell’annessione non nasce oggi: “Questa idea è stata impianta – annota Ilan, fondatore del Zulat Institute for Equality and Human Rights – il primo giorno dell’occupazione, dopo la Guerra dei Sei Giorni. Già alla fine del 1967 il governo israeliano aveva annesso Gerusalemme est e i suoi dintorni con molti villaggi palestinesi. Il territorio fu annesso ma la popolazione – un terzo della popolazione della città – rimase priva dei diritti civili fondamentali, dando origine al primo caso di discriminazione etnica istituzionalizzata. Non si chiamava ancora apartheid, anche se il regime dell’apartheid in Sudafrica era all’apice dell’epoca e le relazioni diplomatiche tra i due Paesi erano quasi scontate. È da notare che la parola ‘apartheid’ suscita ripugnanza morale in tutto il mondo perché ricorda un deplorevole regime criminale e disumano, mentre tra molti israeliani suscita sbadiglio e negazione. Tuttavia, la realtà è chiara: l’annessione riciclata equivale all’apartheid. È triste vedere come la lavanderia faccia gli straordinari in Israele.
Secondo la Convenzione di Roma, che funge da fonte di autorità per il Tribunale penale internazionale dell’Aia, l’apartheid è un crimine contro l’umanità. Il regime di occupazione israeliana in Cisgiordania è definito temporaneo, e quindi la comunità internazionale distingue tra il regime militare nei territori occupati e la democrazia nello Stato di Israele, nonostante la responsabilità di quest’ultimo per la situazione in Cisgiordania controllata dall’esercito, che ha chiare caratteristiche dell’apartheid.
La sostituzione dell’occupazione militare con l’annessione, o la sinonima ‘applicazione’ della legge e della giurisdizione israeliana” nei territori occupati, dovrebbe far capire al mondo che in Israele esiste un regime di apartheid oppressivo, con tutto ciò che questo implica.
È doloroso che pochi di noi sappiano cosa è accaduto nel temibile regime di apartheid del Sudafrica, quanto fosse buio, e quali istituzioni siano state create e quali leggi siano state promulgate per permettere alla minoranza bianca di godere di un’alta qualità di vita, a spese di una violenta e corrotta oppressione della maggioranza nera. La somiglianza tra l’allora Sudafrica e l’attuale Israele è straziante: un sesto della popolazione sudafricana era bianca (un tasso di 5:1), mentre in Cisgiordania i coloni sono un sesto e i palestinesi sono cinque-sesti della popolazione (un tasso di 1:5). Eppure noi neghiamo la realtà e scrolliamo le spalle alle sue conseguenze: L’apartheid è già qui!
Le persone giocano con parole edulcorate e la chiamano ‘annessione’, ma si avvicina il momento in cui le istituzioni israeliane, compresa la Knesset e il governo, saranno chiamate a promulgare leggi che si applicheranno anche ai territori occupati. In altre parole, un unico regime potrà presto governare dal fiume Giordano al Mediterraneo senza ricorrere alla Corte Suprema per fermarlo. Questa situazione trasformerà Israele in un regime di apartheid.
Un rapporto dell’Istituto Zulat, pubblicato questa settimana con il nome di ‘lavanderia a gettoni’, mostra come il governo di Netanyahu abbia metodicamente indotto l’opinione pubblica israeliana a credere che diventare uno Stato dell’apartheid sia un atto legittimo e razionale. L’uso sistematico e deliberato di concetti riciclati come ‘annessione’ e ‘applicazione della sovranità’ è diventato sempre più comune nel tempo ed è stato portato avanti da politici e personaggi dei media per distogliere l’attenzione altrove.
Come risultato di questo riciclaggio deliberato, l’uso del termine ‘applicazione della sovranità’ nei media è aumentato del 3,425% tra dicembre 2019 e gennaio 2020, mentre la menzione della parola ‘apartheid’ è rimasta invariata, ed è addirittura diminuita in alcuni media.
L'”applicazione della sovranità” e l'”annessione parziale” sono state normalizzate e inserite nel discorso pubblico, e sono diventate mosse politiche che ci si aspetta vengano approvate dalla Knesset con il supporto passivo/attivo dei rparlamentari laburisti e di quelli di Blu e Bianco, , che sono nella Knesset in virtù dei voti espressi dagli elettori di centro e di sinistra che non hanno familiarità con le loro ripercussioni.
Va notato che il meccanismo di riciclaggio ha usato rigorosamente il termine “applicazione della sovranità” nelle fasi iniziali, mentre nelle fasi successive il processo è salito di una tacca e lo sforzo si è concentrato sullo svuotamento del concetto stesso di annessione e sul caricamento con un significato più morbido, moderato e tollerabile. Uno dei metodi chiave utilizzati a tal fine è stato quello di sottolineare costantemente l’apparente differenza tra annessione totale e parziale.
Nell’ambito del passaggio dalla periferia al mainstream, un numero crescente di voci ha cominciato a farsi sentire nella politica israeliana e nei media – in gran parte provenienti dal centro-sinistra – per cui le implicazioni non sono disastrose, se in gioco c’è solo un’annessione parziale dei blocchi di insediamenti o della Valle del Giordano. Tuttavia, qualsiasi annessione di territorio che non faccia parte dei negoziati con i palestinesi – sia essa grande, parziale, minima o anche simbolica – è in contrasto con il diritto internazionale e con l’ordine del secondo dopoguerra creato per evitare che si ripeta.
L’annessione è un’annessione, e non vi è alcuna differenza fondamentale, costituzionale, politica o di sicurezza sulla scena internazionale per quanto riguarda le possibilità di stabilire uno Stato palestinese o le nostre relazioni con i Paesi arabi, in particolare con la Giordania.
Prima lo capiamo, meglio è: un mucchio di parole ‘lavate’ non cambierà il fatto che siamo sull’orlo di uno Stato di Israele che sta per diventare un vero e proprio regime di apartheid, una mossa che inciderà seriamente sulla nostra forza morale, sulla nostra posizione internazionale e sulla sicurezza nazionale. In Sudafrica, i bianchi hanno goduto di pieni privilegi e i neri sono stati privati di ogni diritto e futuro; in Cisgiordania, invece, sono i coloni che godono di privilegi unici e i palestinesi che non hanno diritti e futuro, al punto che alcuni fantasticano addirittura di deportarli in Giordania”.
Così Ilan Baruch. Qualcuno con un briciolo di onestà intellettuale, può tacciarlo di “antisemitismo”? E può appiccicare questa infamante etichetta a chi l’apartheid in Sudafrica l’ha combattuto.
A fianco di Nelson Mandela, come il Premio Nobel per la pace Desmond Tutu? “Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all’indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei”. Le mie visite in Terrasanta sono state per me un viaggio nel passato, un doloroso viaggio nella memoria, nel dolore. Ha riaperto antiche ferite. Nell’umiliazione dei palestinesi ai ceck point ho rivisto ciò che noi neri provavamo in Sudafrica quando un ufficiale ti impediva di passare. Una umiliazione sistematica, quella praticata da membri delle forze di sicurezza israeliane, che non risparmia neanche le donne e i bambini. Ho visto madri pregare inutilmente per potersi recare in un villaggio vicino per poter assistere gli anziani genitori impossibilitati a muoversi. Quei check point, assieme al Muro, isolano villaggi, spezzano comunità; quei check point sono l’espressione di un dominio che segna la quotidianità di decine di migliaia di palestinesi. Li prostra, li umilia. Essi mi riportano indietro nel tempo, al Sudafrica dell’apartheid. Ai miei amici israeliani ed ebrei non mi stancherò di ripetere che Israele non potrà mai ottenere la sicurezza attraverso le recinzioni, i muri, i fucili. La sicurezza potrà essere realizzata solo quando i diritti umani di tutti saranno riconosciuti e rispettati. È una lezione della storia che viene dal mio Paese, il Sudafrica”.
Così il primo arcivescovo nero di Città del Capo, in una intervista che concesse a chi scrive. Non c’è altro da aggiungere.
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