Morto un governo, se ne fa un altro. Fosse così semplice risollevare un Paese in ginocchio, prostrato da una devastante crisi sociale ed economica, piegato dall’esplosione di martedì scorso al porto di Beirut, che ha provocato, stando ad alcune fonti ufficiali 160 morti, ma il governatore di Beirut parla di almeno 220 vittime, oltre 7000 mila feriti, 4200 edifici distrutti e 3000mila sfollati, se bastasse cambiare ministri e premier, il Libano tornerebbe a respirare. Ma nessuno tra le decine di migliaia di libanesi protagonisti della rivoluzione in atto, crede a questa favola.
Giochi politici
La piazza è sempre più lontana dai palazzi del potere. Lontana e ostile. E assiste con disgusto e rabbia alle manovre politiche iniziate all’indomani delle dimissioni del governo di Hassane Diab. Il Movimento Patriottico Libero e il movimento Amal, due dei principali sponsor del governo si sono immediatamente schierati per la rapida formazione di un nuovo gabinetto. Il capo dello Stato Michel Aoun, che ha accettato le dimissioni del governo di Diab incaricato di dispiegare gli affari ordinari, non ha ancora fissato una data per le consultazioni parlamentari vincolanti per dare il tempo alle formazioni politiche di raggiungere un accordo.. “Ora che il governo si è dimesso, la priorità è formare rapidamente un governo produttivo ed efficace e ripristinare la fiducia nello Stato”, ha scritto oggi su Twitter il leader del Cpl Gebran Bassil, una delle figure politiche più fischiate dalla piazza, genero del capo dello Stato e fondatore del Cpl, Michel Aoun. “Noi della Cpl saremo i primi a facilitare e a cooperare”, ha aggiunto.
Da parte sua, il gruppo parlamentare del movimento Amal di Nabih Berry, che forma il tandem sciita con Hezbollah, ha convocato un incontro ad Ain el-Tiné per la rapida formazione di un governo “unificante”, il voto di una nuova legge elettorale con il Libano con un’unica circoscrizione elettorale senza vincoli comunitari, nonché la formazione di un Senato che rappresenti le diverse comunità del Paese, come previsto dall’accordo di Taif. In qualità di presidente del Parlamento, Berri, aveva chiesto al governo di rimanere in carica fino a giovedì, così da essere sfiduciato direttamente dall’Assemblea- Un’ipotesi che avrebbe fatto ricadere formalmente su questo esecutivo la responsabilità del disastro nella capitale.
Il toto-premier
Secondo gli osservatori, una personalità è favorita nella corsa, ad ostacoli per diventare il capo del prossimo governo. Si tratta dell’ex ambasciatore libanese presso le Nazioni Unite Nawaf Salam. Citando fonti politiche, il quotidiano al-Akhbar, vicino a Hezbollah, assicura che gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita ma anche la Francia stanno spingendo per la nomina di Mr. Salam, che è stato anche giudice della Corte Internazionale di Giustizia (CIG). a capo di un “governo neutrale”. Fortemente mobilitata per fornire aiuti d’emergenza ai libanesi dopo la tragedia, la comunità internazionale chiede anche riforme strutturali in un Paese già colpito da una grave crisi economica.
In questo contesto, l’ex ministro Wi’am Wahhab ha riferito su Twitter che c’è “pressione internazionale per un governo di salvataggio economico”. “Coloro che non ne facilitano la formazione devono affrontare le sanzioni Usa-Ue e il congelamento dei loro conti”, ha aggiunto Wahhab.
Durante la sua visita in Libano giovedì scorso, il presidente francese Emmanuel Macron ava dichiarato, in una conferenza stampa alla Residence des Pins, di non escludere sanzioni contro i politici libanesi che persistono nell’opporsi alle riforme richieste dal popolo e dalla comunità internazionale.
La rabbia popolare e le rivelazioni della Reuters
La rabbia del popolo libanese non sembra essersi placata dopo le dimissioni del governo All’annuncio del premier sono seguiti i festeggiamenti di una parte della popolazione di Beirut. Fuochi d’artificio e spari sono stati uditi nella capitale, con i festeggiamenti che si sono concentrati nel quartiere a maggioranza sunnita di Tariq al-Jadideh, dove dominano i sostenitori dell’ex premier Saad Hariri.
Ad una settimana dalla doppia esplosione che ha devastato Beirut, un minuto di silenzio sarà osservato nella capitale libanese e in diverse regioni del Paese in omaggio alle vittime della tragedia alle 18.06, ora esatta della seconda esplosione di violenza senza precedenti
I manifestanti che, a partire dalle 17:00, si sono dati appuntamento davanti alla statua dell’emigrato libanese, di fronte al porto, all’uscita nord di Beirut, devono rispettare questo minuto di silenzio, hanno indicato gli organizzatori della manifestazione che ha come slogan “Seppellire prima le autorità”.
Dolore e rabbia non sono leniti dal tempo. Tutt’altro. La rabbia e l’indignazione potrebbero aumentare ulteriormente alla luce delle rivelazioni dell’agenzia britannica Reuters, secondo cui i funzionari della sicurezza libanese avevano avvertito il primo ministro e il presidente il mese scorso della presenza di questa scorta di nitrato di ammonio, due settimane prima della tragedia. Poche ore prima delle dimissioni del suo governo, il team del primo ministro aveva trasferito il caso alla Corte di giustizia su richiesta del presidente Michel Aoun e su proposta della ministra della Giustizia Marie-Claude Najm. La Corte di Giustizia è competente a giudicare “tutti i reati commessi contro la sicurezza interna ed esterna dello Stato e alcuni reati contro la pubblica sicurezza”, ha detto il Ministero della Giustizia.
Interpellato da L’Orient-Le Jour, il giornale francofono di Beirut, sul significato e la valenza di questo provvedimento, Antoine Sfeir, avvocato a Beirut e Parigi e docente all’Università di Saint Joseph, spiega che il governo ha dato una portata diversa a questa tragedia, che sale così al rango di crimine contro la sicurezza dello Stato o la pace civile. “Con la Corte di giustizia non si può fare ricorso”, spiega. Il ministro della Giustizia, anche se si dimette, dovrà nominare un investigatore giudiziario che sarà responsabile degli interrogatori e delle indagini, in coordinamento con il procuratore generale Ghassan Oueidate, che è procuratore d’ufficio presso la Corte di Giustizia”.
“Reagendo, un po’ tardivamente, alla legittima rabbia popolare che si è scatenata nelle strade dopo le esplosioni di Beirut – scrive Michel Touma nell’editoriale su OLY – Hassane Diab ha sollevato sabato due domande pertinenti che tutti i libanesi si pongono dal disastroso 4 agosto e che lascia come “eredità” al nuovo governo che deve essere insediato: perché questo stock di nitrato di ammonio è stato mantenuto per sei anni nel porto di Beirut? E chi ha beneficiato delle gigantesche quantità di questa sostanza chimica? Il capo del governo uscente ha certamente posto le domande giuste, ma si è fermato a metà strada. Altre aree grigie devono essere chiarite per rivelare le vere cause di questa tragedia e per determinare chi ne è stato responsabile. Prima di tutto, perché e per chi è stato scaricato questo carico nel porto? E poi, chi è il partito che per sei anni ha costretto gli alti funzionari interessati a osservare un totale silenzio – una linea rossa – sulla presenza di questo carico potenzialmente esplosivo, in certe condizioni fisico-chimiche, come è stato sottolineato in ben cinque note ufficiali indirizzate ai dirigenti, l’ultima delle quali risale al 20 luglio scorso? Ancora più grave: molti esperti scientifici osservano che il nitrato di ammonio in quanto tale può produrre una catastrofe come quella che ha distrutto diversi quartieri di Beirut solo se sottoposto ad alta pressione e ad un grande shock esplosivo. La questione fondamentale che sorge quindi è chi è responsabile del mantenimento di questo fattore al di fuori del nitrato di ammonio nella zona portuale, che ha portato ad un evento cataclismico il cui potere è stato sentito fino a Cipro? Il chiarimento di tutti questi punti oscuri – prosegue Touma – richiede ovviamente un’indagine scientifica e approfondita che ha bisogno di tempo. Ma a parte gli aspetti legali e di sicurezza, dal terremoto del 4 agosto emergono due conclusioni macro-politiche. In primo luogo, il duro e mortale calvario che i libanesi hanno subito e continuano a subire nell’ultima settimana è una delle conseguenze dirette del coinvolgimento forzato del Libano nei conflitti regionali. Già di fronte a una devastante crisi economica e finanziaria causata – oltre che dal clientelismo e dal cieco acume imprenditoriale della classe dirigente – da questo coinvolgimento nei conflitti regionali, la popolazione libanese ha il diritto di proclamare forte e chiaro “stop” alle avventure belliche transnazionali. Il Libano non è più assolutamente in grado di sopportare il peso della “guerra degli altri” sul suo territorio e di compiere ulteriori sacrifici per soddisfare le ambizioni egemoniche di poteri e forze regionali, come è avvenuto negli ultimi decenni, soprattutto dopo la debacle araba del giugno 1967 e l’emergere dell’Olp come attore determinato a imporre la sua libertà d’azione. Ma a livello strettamente locale, l’apocalisse del 4 agosto è stata la manifestazione più dura e più grave del disastroso funzionamento delle istituzioni e degli apparati statali, come dimostra il clima caotico che ha segnato il caos governativo prima dell’annuncio delle dimissioni di Hassane Diab. Tale disfunzione è di per sé uno degli effetti più perversi del comportamento di un partito che nel corso degli anni si è trasformato in una struttura parastatale globale, che ha inibito a più livelli l’azione dello Stato, già gravemente ostacolato dalla condotta di una certa categoria di “leader” politici senza legge. Questa dicotomia nell’esercizio del potere potrebbe spiegare il diktat delle linee rosse e il “laissez faire, laisser aller” nel caso del porto di Beirut”.
Ciò che resta del porto
L’esplosione ha spianato il porto di Beirut. E in un Paese che è stato colpito per diversi mesi da un “naufragio” economico, la tragedia ha scatenato timori di insicurezza alimentare. Circa “l’85% del cibo del Libano è importato, e passa attraverso questo porto”, ha ricordato lunedì il direttore del Programma alimentare mondiale (Pam), David Beasley, attualmente in missione in Libano. Beasley Parlava dal porto, dove un aereo da carico scaricava generatori, gru e magazzini temporanei. L’obiettivo è quello di ristabilire “entro due settimane” alcuni servizi per garantire l’approvvigionamento alimentare del Paese. “In questa fase, i libanesi non avranno il pane entro due settimane, quindi è essenziale iniziare queste operazioni”, avverte Beasley.
I rifugiati, gli ultimi tra gli ultimi
L’Unhcr , l’ Agenzia Onu per i Rifugiati “, si rattrista nel riferire che il bilancio degli oltre 200 morti e dispersi nell’esplosione mortale e distruttiva che ha scosso Beirut il 4 agosto, comprende almeno 34 rifugiati segnalati finora”, si legge in una nota ufficiale..
I nostri team sul campo stanno ancora verificando le segnalazioni, e temiamo che il numero di morti tra i rifugiati di Beirut, circa 200.000, possa aumentare ulteriormente. Sette rifugiati sono ancora dispersi, mentre altri 124 sono rimasti feriti nell’esplosione, di cui 20 gravemente. Continuiamo a lavorare con le squadre di soccorso e altri partner umanitari per identificare le vittime e stiamo fornendo sostegno alle famiglie che hanno perso i loro cari. Questa assistenza include consulenza, denaro d’emergenza e aiuto per la sepoltura. L’esplosione ha colpito tutti, indipendentemente dalla nazionalità o dallo status. La nostra risposta umanitaria immediata alla tragica esplosione riguarda l’intera comunità, compresi i libanesi, i rifugiati e i lavoratori migranti. Si concentra sulle persone più vulnerabili della comunità e su due aree principali: alloggio e protezione”.
Il Libano, è bene ricordarlo soprattutto ai cialtroni che in Italia continuano a urlare “invasione, invasione” di migranti, che il Libano, con una popolazione che secondo stime ufficiali, non raggiunge i 4,3 milioni di abitanti, ospita sul proprio territorio più di un milione di rifugiati siriani. La loro è una tragedia nella tragedia.