Marina Calculli: “Il capitalismo sfrenato è la prima causa del tracollo del Libano”
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Marina Calculli: “Il capitalismo sfrenato è la prima causa del tracollo del Libano”

La docente di relazioni internazionali a Leiden ha vissuto in Medio Oriente: “Il sistema confessionale fa da paravento politico a un sistema retto da poche famiglie. Ma la società civile è resistente”

Beirut danneggiata dopo le esplosioni del 4 agosto
Beirut danneggiata dopo le esplosioni del 4 agosto
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19 Agosto 2020 - 19.06


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di Chiara Zanini

Marina Calculli insegna Relazioni Internazionali all’Università di Leiden in Olanda, dopo aver insegnato in altri prestigiosi atenei. È autrice di numerose pubblicazioni tra cui Come uno Stato. Hezbollah e la mimesi strategica (edito da Vita e pensiero). Ha vissuto diversi anni in vari paesi del Medio Oriente e soprattutto in Libano, dove ha studiato e lavorato.

Dottoressa, la situazione in Libano era già esplosiva da prima delle esplosioni del 4 agosto a Beirut. Quali sono le questioni principali che il Libano deve affrontare e che hanno mosso le proteste, che si è tentato di reprimere con la violenza?
La crisi economica e finanziaria era certamente già esplosa e ha radici che devono essere ricercate andando indietro almeno fino alla fine della guerra civile libanese. Questa crisi ha già prodotto conseguenze devastanti sulle classi povere, ma anche su quelle medie, oltre ad aver reso ancora più vulnerabili di quanto già non fossero i lavoratori e soprattutto le lavoratrici straniere, vittime di un vero e proprio sistema organizzato di sfruttamento. La causa di questo tracollo che prima di tutto è sociale è insita nel funzionamento del sistema capitalista selvaggio e senza freni che ha segnato in particolare la ricostruzione post-bellica del paese e che le spinte alla deregolamentazione del mercato al livello globale dopo la fine della guerra fredda hanno solo potenziato. In Libano c’è una magnificazione della diseguaglianza socio-economica e della distruzione ideologica e sistematica di qualsiasi idea di bene pubblico. Il sistema confessionale, ovvero la divisione dei poteri tra comunità religiose, fa da paravento politico a questo sistema economico retto da poche famiglie che in nome della religione hanno creato una sorta di ‘cartello’ con cui gestiscono i loro interessi privati.
Il sistema confessionale è sotto accusa, ma è anche estremamente resistente proprio perché ha in mano l’economia del paese ed è protetto dall’esterno, storicamente dalla Francia e poi dagli Stati Uniti, ma poi anche dall’Arabia Saudita, dall’Iran. Oggi nuovi attori – Cina, Russia e Turchia in particolare – sembrano pronti a sfruttare il sistema confessionale dall’esterno.
C’è però da dire che anche la società civile libanese, nonostante abbia perso la maggior parte delle battaglie contro l’élite, è molto resistente. L’esplosione del 4 agosto ha legittimamente provocato una reazione sociale fortissima, nonostante la stanchezza di molte frange della popolazione, rianimando le proteste cominciate a ottobre 2019. I manifestanti chiedono la fine del sistema confessionale che, tuttavia, sta già cercando di rinnovarsi. D’altra parte il presidente Aoun ha già detto che non si dimetterà.

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Come dobbiamo leggere la visita di Macron?
Le crisi in genere fanno soffrire i vulnerabili ma sono anche delle grandi occasioni per il potere. L’internazionalizzazione dell’ennesima crisi provocata dall’esplosione del 4 agosto è già iniziata. In particolare la Francia, ma non solo, ha oggi tutto l’interesse nel farsi promotrice degli aiuti esterni al Libano per plasmare dall’esterno, indirettamente, il contesto politico domestico libanese, spostandolo verso i propri interessi nella regione. La Francia sta conducendo una guerra fredda nel mediterraneo contro la Turchia per il controllo geostrategico della regione, che si è acuito con la scoperta di nuovi giacimenti di gas.

Nel 2005 l’uccisione dell’ex primo ministro libanese al-Harīrī e altre 21 persone. Hezbollah è sciita, al-Harīrī era sunnita, ma ieri il Tribunale speciale per il Libano (TsL) ha giudicato colpevole un solo esponente di Hezbollah tra i quattro imputati e ha chiarito che non si può considerare Hezbollah come mandante.
È stata una sentenza ovviamente deludente. Dopo oltre un decennio di lavoro e quasi 100 milioni di dollari spesi, per metà provenienti dallo Stato libanese (quindi dalle tasse dei contribuenti libanesi), non c’è un colpevole. Ci si attendeva che il verdetto imputasse a Bashar al-Asad, il presidente siriano, di aver ordinato l’uccisione di Hariri. Vero o meno che sia (non lo sapremo forse mai), è necessario contestualizzare questa sentenza in due ordini di ragionamento: il primo riguarda la strumentalizzazione politica della giustizia internazionale attraverso il TSL (Tribunale speciale per il Libano). Il secondo riguarda la trasformazione del contesto politico libanese e mediorientale dall’uccisione di Hariri a oggi.
Sul primo punto, va ricordato che i tribunali internazionali sono stato istituiti prima del 2005 per perseguire crimini conto l’umanità. È stato un fatto inedito istituire un tribunale internazionale per l’assassinio di un uomo d’affari che era stato primo ministro ma non ricopriva più quella carica al momento della sua uccisione. Nonostante l’indiscussa influenza politica di Hariri e il fatto che si sia ovviamente trattato di un assassinio politico, il TSL è stata l’ennesima internazionalizzazione di un problema locale – una tendenza che non ha mai reso il Libano davvero indipendente, ma ne ha semmai perpetuato la natura coloniale. Questo tribunale speciale è fin troppo speciale persino tra i tribunali ad hoc istituiti dalle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti e la Francia spinsero molto nel 2005 per creare questo tribunale e cercare così di distruggere la Siria prima di tutto e poi Hezbollah, per portare avanti i loro interessi geopolitici nella regione. Con questo ovviamente non intendo affatto difendere il regime siriano o Hezbollah, ma solo mettere in evidenza la natura politica del TSL.
Proprio per questo è oggi legittimo chiedersi se una sentenza così deludente non sia anche il prodotto della trasformazione del contesto politico e geopolitico mediorientale. In particolare, se gli Stati Uniti e la Francia negli anni che hanno seguito l’assassinio di Hariri hanno cercato attivamente di rovesciare il regime di Asad, oggi preferiscono mantenere un Asad debole a capo di una Siria distrutta dalla guerra siriana che va avanti da nove anni. Il paradosso è che dal 2011 il regime siriano ha commesso così tanti crimini di guerra contro la sua stessa popolazione civile che ci sarebbero buone ragioni per invocare l’istituzione di un tribunale speciale internazionale per la Siria. Ma il contesto politico è evidentemente diverso.

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Una domanda sulla regione mediorientale: che effetti avrà nella regione e per la Palestina l’intesa di normalizzazione delle relazioni tra Israele e Emirati Arabi Uniti avvenuta con la mediazione di Trump?
Questo accordo non è una sorpresa. È la formalizzazione di un’intesa che informalmente era già ben strutturata e che ha semmai solo subito un’accelerazione da parte dell’amministrazione Trump. Dobbiamo prendere atto, ancora una volta, di quanto i leader autoritari arabi siano disposti a svendere la solidarietà verso la Palestina, manifestando in realtà la loro debolezza politica e la loro dipendenza (spesso individuale) dagli Stati Uniti. Questo vale in particolare per i regimi arabi del Golfo.
La situazione in Palestina comunque non cambia certo con questo accordo e sarebbe difficile pensare che possa peggiorare ancora. Le faccio un esempio: anche stanotte Israele ha bombardato Gaza. Ma questa è ormai una di quelle notizie che passano inosservate. L’apatia del mondo rispetto alla questione palestinese non è casuale. È il prodotto di una coordinata e sistematica attività che ha neutralizzato il diritto internazionale, l’attivismo civile e la comunicazione di ciò che accade in Palestina e mira a presentare come “legittimi” i crimini e le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.
È importante però ricordare che c’è un forte scollamento – come sempre – tra le élites e i cittadini ordinari che invece restano in gran parte solidali con i palestinesi, anche perché subiscono spesso lo stesso processo di disumanizzazione da parte dei loro governanti e della comunità internazionale che li sostiene. Le società del mondo arabo sono state tuttavia molto indebolite dall’ennesima ondata di repressione, seguita alle rivolte arabe del 2011, sostenuta attivamente dall’esterno, dagli Stati Uniti, dall’Europa, dalla Russia e dalla Cina. Le élite al potere hanno anzi rafforzato la loro posizione negli ultimi nove anni. Per cui non sentiamo neppure la voce della regione. Sentiamo solo i governanti che poco rappresentano politicamente le popolazioni.

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