Israele irrompe nelle presidenziali Usa. La campagna presidenziale di Joe Biden ha criticato ieri il segretario di Stato americano Mike Pompeo per aver registrato un discorso per la Convention dei Repubblicani durante un viaggio diplomatico in Israele, definendolo “un abuso del denaro dei contribuenti”.
La campagna di Biden ha sostenuto in una dichiarazione che Pompeo cercava di trasformare Israele in un “problema di cuneo politico” prima delle elezioni generali di novembre, aggiungendo che “il sostegno storico bipartisan a Washington per Israele e la sua sicurezza non dovrebbe mai essere subordinato alla politicizzazione per guadagno personale”. Pompeo è arrivato in Israele lunedì per un viaggio ufficialmente incentrato sugli sforzi diplomatici per stabilire legami tra Israele e gli Stati arabi.
Ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Benny Gantz e il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, prima di partire per la sua prossima tappa, il Sudan.
Ma mentre si trovava in Israele, ha registrato un video messaggio per la Convention repubblicana dalla terrazza dell’hotel King David, che si affaccia sulla città vecchia di Gerusalemme.
Pompeo il jerusalemita
Il discorso di Pompeo, andato in onda ieri, ha messo in evidenza le decisioni politiche di Trump riguardo a Israele, come il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme e il rifiuto di accettare l’idea che gli insediamenti in Cisgiordania sono illegali secondo il diritto internazionale. Il principale target di riferimento per il discorso è costituito dai cristiani evangelici, che sono uno dei segmenti chiave per il voto di Trump.
Circa l’80% di loro lo ha sostenuto nelle elezioni del 2016, e avrà bisogno di un livello di sostegno simile tra questo gruppo per avere una possibilità di rielezione. Pompeo stesso è un cristiano evangelico e spesso parla della sua fede nei discorsi politici.
I predecessori di Pompeo sotto il presidente Barack Obama, Hillary Clinton e John Kerry, non sono intervenuti ai congressi democratici del 2012 e del 2016.
La decisione di Pompeo di inviare un discorso preregistrato, e di farlo da Gerusalemme, tra tutti i luoghi, “mina il lavoro critico svolto dal Dipartimento di Stato”, secondo la dichiarazione della campagna di Biden, accusando il segretario di “politicizzazione della diplomazia”.
“Fare questo discorso intrinsecamente di parte da Gerusalemme è anche l’ultima istanza di questa amministrazione che cerca di usare Israele come un problema di cuneo politico”, ha aggiunto la dichiarazione. La campagna di Biden ha ulteriormente attaccato Pompeo sostenendo: “Anche con gli standard abissalmente bassi di questa amministrazione, la decisione del segretario Pompeo di servire come fattorino per la rielezione del presidente in una missione diplomatica finanziata dai contribuenti, e la sua decisione di usare uno dei nostri partner più vicini come sostegno politico nel processo, è assolutamente vergognosa”. Pompeo è stato anche criticato dal Consiglio Democratico Ebraico d’America. Il direttore esecutivo dell’organizzazione, Halie Soifer, ha scritto su Twitter che l’apparizione di Pompeo alla convention repubblicana da Gerusalemme “sottolinea i continui sforzi di Trump per politicizzare e usare Israele”.
Ha aggiunto che “la politica degli Stati Uniti viene usata come uno stratagemma politico nella rielezione di Trump, e lui stesso usa Israele come palcoscenico per lo spettacolo di Trump”. Nelle elezioni del 2012, il candidato repubblicano, Mitt Romney, si è recato a Gerusalemme quattro mesi prima delle elezioni nel tentativo di sostenere la comunità ebraica e di sfruttare i disaccordi tra Netanyahu e il presidente Obama per allontanare gli elettori ebrei dal partito democratico. Obama, tuttavia, ha comunque conquistato circa il 70% dei voti degli ebrei in quelle elezioni. Quattro anni prima, lo stesso Obama, allora candidato democratico alla presidenza, aveva visitato Israele prima delle elezioni di novembre.
Biden e la discontinuità pro-Bibi
Tornare indietro è alquanto problematico, sul piano procedurale e su quello politico. Ma Joe Biden non intende condividere con the Donald una strategia sul Medio Oriente, e sull’eterno conflitto israelo-palestinese, che il candidato democratico alla Casa Bianca ritiene fallimentare. In sintesi: se Biden sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America l’ambasciata in Israele rimarrebbe a Gerusalemme, ma per il resto, addio al “Piano del secolo” e ai continui “regali” politici fatti da Donald Trump all’amico “Bibi”, al secolo Benjamin Netanyahu, il primo ministro più longevo nella storia dello Stato ebraico, destinato a consolidare il suo record almeno fino a settembre2021, stando al “patto della staffetta” stabilito con il suo ex sfidante Benny Gantz. Una cosa è certa: con Biden presidente cambierebbe e di molto la politica statunitense verso Israele. Cambio non significa rivoluzione, ma neanche correttivi marginali. Prendiamo, a mo’ di esempio, la vicenda dello spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme: una decisione scritta da tempo, ma che nessun presidente americano prima di The Donald aveva resa operativa con la sua firma in calce. Trump l’ha fatto, con l’entusiastico sostegno di Netanyahu e della destra ultranazionalista israeliana, non replicato, come sperava il tycoon di Washington e i suoi più stretti collaboratori sul Medio Oriente – a cominciare dal suo consigliere-genero Jared Kushner – nel composito universo dell’ebraismo americano.
Ora, Biden non intende riportare l’ambasciata a Tel Aviv ma al tempo stesso ha criticato la decisione di Trump definendola “miope e frivola”.
Biden, parlando durante una raccolta fondi virtuale, ha sostenuto che spostare nuovamente l’ambasciata non aiuterebbe il processo di pace stagnante tra il governo israeliano e l’Autorità palestinese, che hanno combattuto per generazioni su come dividere terra e potere, in particolare Gerusalemme. Ai donatori, Biden ha rivelato la sua intenzione, se sarà lui il vincitore delle elezioni presidenziali di novembre, di riaprire un consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme Est per coinvolgere i leader palestinesi in un negoziato di pace fondato, e qui sta la grande rottura con la politica dell’amministrazione Trump, sulla soluzione “a due Stati”, che è stata a lungo, come rimarca il quotidiano progressista di Tel Aviv Haaretz, la posizione ufficiale degli Stati Uniti verso Israele e i palestinesi.
“Sono stato un orgoglioso sostenitore di uno stato ebraico israeliano sicuro e democratico per tutta la mia vita”,ha detto Biden. Ma ha aggiunto: “La mia amministrazione solleciterà entrambe le parti a prendere provvedimenti per mantenere viva la prospettiva di una soluzione a due Stati. Ogni decisione unilaterale presa in questo senso – ha concluso il candidato dem alla Casa Bianca – finirebbe per rendere meno probabile un accordo e per questo andrebbe respinta, compresi eventuali piani di “annessione”. Allo stesso webinar, il senatore del Delaware Chris Coons, parlando come sostenitore della campagna di Biden, ha espresso la speranza che il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz e il suo vice, Gabi Ashkenazi – entrambi ex capi dello stato maggiore dell’Idf (le forze armate israeliane) – avrebbero usato la loro leva finanziaria nell’imminente nuovo governo di unità per impedire qualsiasi applicazione della sovranità sulla Cisgiordania. La mia speranza sarebbe che Ashkenazi come ministro degli Esteri e Gantz come ministro della Difesa – in quelle che saranno le deliberazioni interne – data la loro profonda esperienza nell’Idf e date le conseguenze sulla sicurezza di una mossa improvvisa, metterebbero in guardia Bibi [Netanyahu] contro alcuni passi così significativi”, ha aggiunto Coons.
Qualche giorno prima, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, aveva sottolineato come la decisione sulle annessioni ricada “in ultima istanza” su Israele e a ha aggiunto che gli Stati Uniti “stanno lavorando strettamente” con il governo dello stato ebraico per “condividere in privato il nostro punto di vista”. Le parole di Pompeo hanno ricevuto il plauso dei neocon e dei repubblicani, almeno di quelli che si sono espressi, mentre hanno sollevato polemiche tra i candidati democratici alla Casa Bianca. Apertamente contrari, perché di fatto legittima l’annessione della Cisgiordania seppellendo l’idea di uno Stato palestinese (la cosiddetta “soluzione dei due Stati”), Joe Biden – alla fine vincitore della corsa alla nomination, Elizabeh Warren e Bernie Sanders.
La diaspora spaccata
A riferirlo è Amor Tibon su Haaretz, il quale dettaglia anche la spaccatura in seno alla comunità ebraica statunitense. Ad applaudire la decisione, infatti, la Orthodox Union e la Republican Jewish Coalition, a condannarla l’Union for Reform Judaism, l’Americans for Peace Now e J-Street. Una divisione che riflette anche in questo caso la scelta tra i “due stati” e quella di “un solo stato” (Israele). Tibon registra come l’Aipac, la più influente organizzazione ebraica americana, sia rimasta neutrale. Un passo indietro nel tempo. Marzo 2010. Biden è vice presidente degli Stati Uniti, con Barack Obama alla Casa Bianca, ed è impegnato nell’ennesima missione in Medio Oriente. Tappa centrale, Israele.
Scriveva per Avvenire Barbara Uglietti: “Quando l’altro ieri si è ritrovato a Gerusalemme a incassare l’offesa sugli insediamenti (il via libera del governo israeliano a 1.600 nuove abitazioni nella parte araba della Città Santa annunciato proprio il giorno del suo arrivo), [Biden] ha reagito d’istinto, pensando di mandare a monte la cena con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e le buone intenzioni con cui era partito. Poi si è limitato a contenere la protesta in un’ora e mezza di ritardo. Ma di certo il clima a tavola non deve essere stato dei più distesi. Quando ieri è arrivato in Cisgiordania per i colloqui con la parte palestinese, teneva stretto in tasca un documento insolitamente duro nei confronti dell’alleato israeliano (“Condanno la decisione del governo di procedere con la pianificazione di nuove unità abitative. La sostanza e il momento scelto per l’annuncio sono esattamente il tipo di atto che mina la fiducia di cui ora c’è bisogno”), rafforzato dalle condanne dell’Onu (Ban Ki-moon ha ribadito che “gli insediamenti sono una pratica illegale per la legge internazionale”) e dell’Unione Europea (il “ministro degli Esteri” Catherine Ashton si è “associata” con un messaggio inequivocabile alla condanna dell’Onu). Probabilmente Biden ha respirato aria migliore, a Ramallah. Incontrando il presidente dell’Anp Abu Mazen e il premier Salam Fayyad ha di nuovo condannato le decisioni israeliane sugli insediamenti e ribadito l’impegno statunitense verso l’obiettivo di uno Stato palestinese, governabile e dotato di continuità territoriale”.
Continuità territoriale. Un concetto politico prima che geografico. Un concetto che confligge radicalmente con il mini- bantustan palestinese concepito dagli ideatori del “Piano del secolo”. Qui, la rottura è totale. Biden è sempre stato contrario a passi unilaterali nell’ambito del processo di pace in Medio Oriente, compresa l’annessione delle colonie in Cisgiordania da parte d’Israele.
A ribadirlo è stato il suo consigliere per la politica estera Tony Blinken, specificando però che questo “non andrà a pregiudicare quello che potremo o meno fare nell’ambito di un’amministrazione Biden” perché molto potrebbe cambiare per allora. Ma quello che più teme Benjamin Netanyahu e che alla Casa Bianca non rientri Donald Trump, un’assicurazione a vita per i falchi di Tel Aviv.
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