Libia-migranti: quella "Tratta di Stato" di cui l'Italia è complice
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Libia-migranti: quella "Tratta di Stato" di cui l'Italia è complice

È il campo di Triq al Sikka, che è ed è sempre stato il quartier generale delle milizie pro-Sarraj. Tutti lo descrivono come un inferno per gli alti livelli di abuso e incuria.

Lager in Libia
Lager in Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Agosto 2020 - 15.28


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Il centro della “Tratta di Stato” si trova nel cuore di Tripoli. E’ il campo di Triq al Sikka, che è ed è sempre stato il quartier generale delle milizie pro-Sarraj -il capo del Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto internazionalmente e sostenuto dall’Italia -.

Ma Triq al Sikka è anche un lager vero e proprio, con tanto di celle per le torture.

Tra i centri della capitale libica, Triq al Sikka, dove ci sono più di 400 persone, viene regolarmente descritto dai rifugiati come uno dei peggiori a causa degli alti livelli di abuso e incuria. “È proprio come l’inferno”, ha detto uno degli ex detenuti. “Un abominio Il giorno e la notte sono la stessa cosa per noi”.

Tre testimoni hanno raccontato, sempre all’emettente televisiva del Qatar, ad Al del modo in cui le guardie libiche accerchiavano i rifugiati e i migranti di sesso maschile prima di iniziare a picchiarli con dei bastoni e delle barre di metallo. Hanno dichiarato, inoltre, che almeno quattro persone avrebbero perso conoscenza a causa delle percosse e che le donne, che venivano trattenute in un’area separata, avrebbero urlato per tutta la durata di quelle violenze.

“All’inizio le persone venivano rilasciate dopo mesi” ha affermato un rifugiato che conosceva altri detenuti rinchiusi nella stessa cella sotterranea per aver tentato di scappare. “Questo posto è così brutto. Non c’è spazio per camminare, è buio ed è così piccolo”.

I rifugiati e i migranti precedentemente detenuti a Triq al Sikka hanno raccontato di essere stati tenuti al buio per tutto il giorno, di aver subito regolarmente abusi e di non aver ricevuto cibo a sufficienza né cure mediche.

Dopo aver perso la speranza di uscire da quel posto, , un ventottenne somalo ritornato in Libia attraverso la guardia costiera si è dato fuoco nel centro di Triq al Sikka.

È a Triq al Sikka che nel 2020 spariscono le persone. Non tutte, solo alcune. Viene fatta una selezione fisica: i più alti, i più forti vengono scelti per la guerra e separati dagli altri È il centro di reclutamento degli schiavi-soldato, ceduti dalle guardie alle terribili milizie che combattono per al-Sarraj (Gna). Il campo è un deposito di armi da guerra e i rifugiati catturati in mare vengono lì utilizzati anche come scudi umani.

Secondo quanto riportato da Amnesty International, più di 20 rifugiati e migranti, bambini inclusi, sono stati portati in una cella sotterranea e torturati a turno, uno dopo l’altro, per giorni, come punizione per aver protestato contro la loro detenzione arbitraria in condizioni squallide e per la mancanza di soluzioni.

Un altro somalo, Abdi*, (nome di fantasia per ovvi motivi di sicurezza), ha parlato di estorsioni e pestaggi da parte delle guardie nel centro di detenzione. Abdi è  stato catturato in mare dalla Guardia costiera libica, e rimandato in Libia dove è stato spostato da un centro di detenzione all’altro.“A volte – racconta – le guardie bevono e fumano, e poi picchiano le persone. Inoltre, ti chiedono di pagare per essere rilasciato e se non paghi ti picchiano. Vedevi le guardie, la milizia e la polizia, entrare e malmenare quelli che non avevano pagato”.

Tratta di Stato

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Al Jazeera ha parlato con sei fra attuali e ex detenuti di Triq al Sikka. Alcuni dicono di essere lì già da un anno, mentre altri sono scappati durante i recenti scontri in città. I detenuti raccontano di trascorrere ogni giorno al buio, con le guardie che evitano di avvicinarsi a loro per il pericolo di contrarre malattie. “Il giorno e la notte sono la stessa cosa per noi”, ha affermato un uomo..

Quando i visitatori stranieri vengono a Sikka, dichiarano i detenuti, le persone ferite e torturate vengono nascoste nel retro dell’ingresso, messe a sedere tra gli autobus, o chiuse a chiave nei bagni delle guardie. Tre ex detenuti hanno raccontato che lo staff delle Nazioni Unite avvisa sempre prima di arrivare e le guardie avvertono i prigionieri: “se dite qualcosa di negativo su di noi vi torturiamo”.

Un giornalista straniero che ha visitato Triq al Sikka l’anno scorso ha confermato di aver assistito a pestaggi che “sembravano essere punizioni”. “Alle guardie libiche non interessa nulla di queste persone. Questo è stato chiaro per me a ogni posto che visitavo. Sembrava davvero che consideravano queste persone come animali”.

Poliziotti-carnefici

Sono poliziotti in divisa, ma si comportano per quello che erano e continuano ad essere: feroci criminali. Sono parte attiva del traffico di esseri umani che ha nella Libia l’hub centrale, assieme alla Tunisia, per tutta l’area subsahariana. Racconta su Avvenire Paolo Lambruschi: “Il breve filmato mostra facce scavate, corpi scheletrici seduti sui talloni perché non hanno la forza di reggersi in piedi dopo essere sopravvissuti a tre anni di torture a Bani Walid. Li hanno rilasciati da un lager, dove sono stati torturati e affamati da miliziani perché non fuggissero e, dopo che hanno pagato 15 mila dollari di riscatto, cacciati in un altro gestito sempre da miliziani, ma in divisa da poliziotti.È una testimonianza dall’inferno, racconta la sorte che attende molti di quelli ripresi o salvati dal mare dalla cosiddetta guardia costiera libica. Vengono portati in un centro di detenzione governativo e tenuti in condizioni insopportabili e repressi selvaggiamente se si ribellano. Da lì, con la complicità di poliziotti al servizio dei trafficanti, chi non è registrato nelle liste dell’Unhcr viene spesso venduto e sparisce in un centro informale gestito da uno dei gruppi armati fedeli a Tripoli che hanno avviato da anni un florido mercato di esseri umani.  Il video è stato girato da Adam – chiamiamolo così per salvaguardarne l’identità perché è ancora in Libia – un africano occidentale che, dopo aver provato a raggiungere in mare l’Europa, è stato riportato in quello che qualcuno si ostina a ritenere ‘porto sicuro’ e rinchiuso a Khoms, uno dei centri di detenzione governativo dove vengono imprigionate le persone salvate nel Mediterraneo. E dove sono arrivati anche alcuni reduci scheletrici di Bani Walid, la “fabbrica delle torture”, rinchiusi di nuovo, senza pietà. Khoms fotografa su piccola scala la situazione attuale dei migranti detenuti in Libia nei centri statali e in quelli delle milizie. Nel lager, 90 km a est di Tripoli, al momento sono chiusi 170 prigionieri, perlopiù eritrei, 100 dei quali registrati dall’Unchr e 70 provenienti dai salvataggi in mare. Adam vi è stato detenuto alcuni mesi e ha scritto anche un diario per non impazzire. Inizia così: “I prigionieri provano sempre a scappare, ma le guardie sparano per fermarli e quando li riprendono li picchiano con spranghe”.

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L’”attualità del male”

Per quanti non si fidano, e a ragione, delle veline di stato, e non hanno mai bevuto la narrazione di una inesistente “invsione” di migranti, consigliamo la lettura de L’attualità del male (Ed Seb 27) il libro curato dallo scrittore e avvocato Maurizio che ci porta all’ interno dell’inferno libico, svelando ogni possibile particolare ancora sconosciuto, per risvegliare le nostre coscienze.  “Il libro prende vita da una decisione della Corte d’Assise di Milano, che il primo dicembre 2017 certifica la mostruosità dei lager libici e stravolge, ridefinendolo, il vocabolario del grande buco nero post Gheddafi. Ci provano, in una lingua comprensibile a tutti, alcuni giudici togati e popolari, accademici, giuristi. Le parole della giustizia hanno un valore speciale, perché offrono la traduzione giuridica dei fatti storici, cioè la verità processuale.”, spiega lo scrittore.

Emergono allora, dal racconto delle vittime presenti in quell’ aula di tribunale, gli orrori che la società italiana sembra non voler vedere, fino a legittimare e approvare la chiusura dei porti ai profughi che scappano dalla Libia. La sentenza della Corte d’Assise di Milano resterà per lo più fuori dai riflettori dei media “per non ricordare” che la storia del passato e quella del presente si incontrano, dolorosamente, in un accumulo di orrori che non avrebbero dovuto mai più accadere e ancor meno essere legittimati o ignorati dal mondo civilizzato.

Spiega l’autore: “Nel libro racconto come i migranti vengano incarcerati perché privi di documenti. Si tratta di persone sequestrate a scopo di estorsione, vittime di sevizie e abomini. La cosiddetta ‘polizia che arresta’ è il travestimento di gang armate, bande di strada, Asma Boys che popolano gli incubi dei sopravvissuti ad anni di distanza. Ci sono poi gli arabi che ‘liberano i subsahariani per assumerli’ e che invece, nella realtà, li riducono in schiavitù. Sono loro, gli schiavisti del nostro tempo, i padroni della scacchiera e delle pedine intrappolate in un labirinto di compravendite, cessioni e persino vendita all’asta di uomini e donne”.

Gli “uomini che si imbarcano” diventano bestie recintate, minacciate e pestate, stipate in barconi pericolanti in partenza dalla bocca dell’inferno. Il tutto affidato alla regia della criminalità organizzata transnazionale, autentici imprenditori feudali del XXI secolo. ”I titoli dell’ indice della sentenza scrivono il sommario di un’ opera horror: i campi di raccoltale punizioni e le torturel’ assenza di cure medichele violenze sessualigli omicidile cicatrici sui corpi delle parti lese.

Nei giorni scorsi, dopo un nuovo naufragio, costato la vita a 45 persone, Oim e l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) hanno chiesto di rafforzare le capacità di ricerca e soccorso in mare, sottolineando come tali operazioni siano esercitate “con sempre maggiore frequenza da imbarcazioni dello Stato libico”. 

“Qualunque tipo di assistenza e responsabilità esercitate da enti libici competenti per le operazioni di ricerca e soccorso dovrebbero essere assegnate a condizione che nessuna delle persone soccorse sia posta arbitrariamente in stato di detenzione, maltrattata o sottoposta a violazioni di diritti umani nelle fasi successive allo sbarco – hanno sottolineato le due agenzie Onu in una nota – in assenza di tali garanzie, dovrebbe essere riconsiderata ogni forma di supporto e le responsabilità di ricerca e soccorso ridefinite”. 

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In un recente rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, è scritto che la missione Onu a Tripoli (Unsmil) “e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno continuato a ricevere segnalazioni di detenzione arbitraria o illegale, tortura, sparizioni forzate, sovraffollamento”. Non solo nelle prigioni clandestine dei trafficanti, ma «”elle strutture di detenzione sotto il controllo del Ministero dell’Interno”.

 Donne e ragazze detenute nelle carceri e nei centri di detenzione hanno continuato a essere esposte alla violenza sessuale», si legge ancora. Il libero accesso ai campi di prigionia ufficiali resta precluso ai funzionari Onu.

Tuttavia gli osservatori Onu “hanno potuto documentare otto casi di donne e ragazze che erano state stuprate da trafficanti e personale di sicurezza libico”. E’ la riprova, rimarca Nello Scavo, il giornalista di Avvenire autore di inchieste e rivelazioni sull’inferno libico e le nefandezze consumate in mare e nei lager,  he hanno fatto il giro del mondo – della connessione diretta tra uomini delle istituzioni e contrabbandieri di vite umane. Di ottenere giustizia nei tribunali locali non c’è speranza. Con il pretesto della pandemia «i casi penali sono stati rinviati», si legge nel rapporto. Solo una scusa: “I membri della Procura della Repubblica non erano disposti o non erano nelle condizioni di indagare, a causa della paura di ritorsioni da parte di gruppi armati’. C’è solo una cosa da fare subito. Antonio Guterres lo dice senza girarci attorno: “Esorto gli Stati membri a rivedere le politiche a sostegno del ritorno di rifugiati e migranti in quel Paese’”.

L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) il 27 luglio ha pubblicato un rapporto in cui ha analizzato l’efficacia degli interventi italiani per migliorare le condizioni all’interno dei centri di detenzione libici arrivando alla conclusione che: “Nei centri nei pressi di Tripoli le ong italiane svolgano un’attività strutturale, che si sostituisce in parte alle responsabilità di gestione quotidiana dei centri che spetterebbe al governo libico. Inoltre, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri”.

Per Salvatore Fachile dell’Asgi, ci potrebbe essere anche una responsabilità giuridica dell’Italia rispetto ai reati contro l’umanità commessi dalle milizie negli stessi centri di detenzione: “L’erogazione di questi fondi potrebbe rendere complici gli italiani con le violazioni profonde dei diritti umani nei centri di detenzione, avverte il giurista. 

La risposta italiana, del Governo e del Parlamento? Rifinanziare l’associazione a delinquere denominata Guardia costiera libica. Una vergogna incancellabile, tangibile dimostrazione che sul tema dei migranti e dei diritti umani, non c’è alcuna differenza tra il Conte I e il Conte II.  E per chi intende “restare umano” non basta che il razzista Salvini non sia più ministro dell’Interno, se poi si perseguono le stesse politiche, in modo più “aggraziato”.

 

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