In Libia l'Italia finisce sotto i ricatti di Haftar: dalla "guerra" dei barconi ai marinai in ostaggio
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In Libia l'Italia finisce sotto i ricatti di Haftar: dalla "guerra" dei barconi ai marinai in ostaggio

I 18 marittimi mazaresi e i due pescherecci bloccati nel porto di Bengasi. Li vogliono scambiare con quattro presunti "calciatori", condannati in Italia per traffico di migranti e omicidio

Il generale Haftar
Il generale Haftar
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

14 Settembre 2020 - 15.55


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Altro che, questione di routine da risolversi in pochi giorni. Qui siamo al ricatto vero e proprio. “Restituiteci i nostri calciatori e libereremo i marittimi e i pescherecci mazaresi”, è questa la  richiesta che arriva dalla Libia. 

I 18 marittimi mazaresi e i due pescherecci bloccati da oltre dieci giorni nel porto di Bengasi, rischiano di diventare ostaggi da scambiare con quattro presunti “calciatori”, rinchiusi in realtà in carcere in Italia dopo l’arresto nel 2015 e le condanne a 30 anni di reclusione, sia in Corte d’Assise che Cassazione, con l’accusa di traffico di migranti e omicidio. 

La richiesta alle autorità italiane non arriva dal traballante Governo di Tripoli, comunque riconosciuto dall’Onu, ma da alcuni ambienti vicini al generale della Cirenaica Khalifa Haftar. Alcuni parenti dei quattro trafficanti stanno manifestando da giorni chiedendo la liberazione dei quattro. Si tratterebbe, secondo la loro versione, di quattro calciatori che si trovavano a bordo di quelle imbarcazioni giunte in Italia, con lo scopo di raggiungere la Germania e trovare fortuna nei campionati di calcio tedeschi. 

Assassini senza scrupoli

Una richiesta surreale che arriva dalla Libia, quando parenti e familiari dei marittimi riuniti con gli armatori di “Antartide” e “Medinea”, sfiduciati dall’operato del Governo italiano pensano di rivolgersi alle autorità straniere, Leonardo Gancitano, armatore di Antartide: “Ci siamo resi conto che con quel pezzo di Libia hanno rapporti solo Turchia e Francia, e allora pensiamo di rivolgerci a Macron anziché a Conte”. Intanto il procuratore di Catania, Zuccaro, afferma che si tratta di una richiesta ripugnante: “Altro che giovani calciatori – dichiara il magistrato -.  Non furono condannati solo perché al comando dell’imbarcazione, ma anche per omicidio. Avendo causato la morte di quanti trasportavano, 49 migranti tenuti in stiva. Lasciati morire in maniera spietata. Sprangando il boccaporto per non trovarseli in coperta. Un episodio fra i più brutali mai registrati”.

I quattro libici tutti tra 23 e 25 anni assieme a quattro marocchini, anche loro condannati e in carcere, furono ritenuti responsabili di non aver liberato i 49 migranti, morti, nella stiva dell’imbarcazione. 

“S’affaccia lo spettro del ricatto – scrive Felice Cavallaro sul Corriere della Sera  Ma ogni margine di trattativa sembra svanire davanti a un processo con imputati considerati responsabili di quella che fu definita ‘la strage di Ferragosto’. Cinque anni fa i quattro libici, tutti fra i 23 e i 25 anni, Joma Tarek Laamami, Abdel-Monsef, Mohannad Jarkess e Abd Arahman Abd Al Monsiff, con quattro marocchini, anche loro condannati e reclusi in carcere, furono accusati di non avere liberato i 49 migranti rinchiusi in stiva. Per questo il procuratore Zuccaro considera l’eventualità di ‘uno scambio di ostaggi’ una enormità giuridica: “Non penso che verremo interpellati, ma da operatori del diritto saremmo assolutamente contrari. Sarebbe una cosa ripugnante’”.

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Sotto ricatto

Questa vicenda s’inserisce nella sequela di ricatti all’Italia che giungono dalla Libia. Tra Il “ricatto dei barconi” è ricominciato. Un ricatto che mette in conto la morte di centinaia di “disperati della terra”: i migranti. E’ il ricatto dei signori della guerra libici  all’Italia: dateci soldi, tanti, e armi, altrimenti vi inondiamo di barconi. E a fermarli non sarà certo il decreto “porti chiusi” emanato dal governo italiano come parte, sbagliata, del contrasto al Covid-19.  “Dobbiamo fronteggiare gli attacchi di Haftar e non abbiamo equipaggiamento e risorse sufficienti anche per il controllo delle acque”, spiega a l’Avvenire una fonte militare da Tripoli, lasciando intendere che serve altro denaro fresco per fermare le partenze, proprio mentre la nave Alan Kurdi si sta avvicinando alle acque territoriali italiane nessuno più può fermare né salvare i naufraghi. Perché l’Europa ha deciso di svuotare il Mediterraneo dalle navi “salva vite” delle Ong, rendendosi complice della strage di innocenti che ha nel Mediterraneo il “mare della morte”.

La “guerra dei barconi” con il ricatto all’Italia, è condotta da coloro che si contendono il territorio, prim’ancora che il potere centrale, in Libia: l’uomo forte della Cirenaica, il maresciallo Khalifa Haftar e il primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fayez al-Sarraj. Loro, ma non solo. Perché nella “guerra dei barconi” sono attivi anche altri soggetti in armi: milizie, tribù, bande criminali, jihadisti, spesso in affari con i trafficanti di esseri umani. Haftar si propone, con la forza e i ricatti, come “Garante” di un piano “partenze zero”. Haftar , spiegano analisti e diplomatici profondi conoscitori della realtà libica, è in grado di garantire un parziale controllo su quei territori attraverso l’alleanza con le tribù Tebu sempre pronte a proporsi, a seconda del momento, come controllori dei confini o di collaboratori dei trafficanti. Il generale punta a ottenere l’aiuto dell’Italia e dell’Europa per addestrare i Tebu, trasformarli nei guardiani delle frontiere e ridimensionare le tribù Tuareg nemiche sia dei Tebu che del generale in virtù dei loro solidi legami con i gruppi jihadisti. Ma tutto questo costa. E tanto. Venti miliardi di dollari per addestrare le sue forze e controllare i 4.000 chilometri di confine sud della Libia.

L’Italia è nel mirino. D’altro canto, per contrastare gli scafisti e affrontare la “guerra dei barconi” scatenata da milizie vicine ai due contendenti libici, al-Sarraj e Haftar, occorrerebbe implementare un blocco navale, dentro o fuori le acque costiere libiche.

Ebbene, per implementare il blocco navale – rileva un report del GeopoliticalCenter – dovrebbero  essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti.

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Se si vuole stabilizzare per davvero la Libia, dice a Globalist il generale Fabio Mini, ex comandante Nato, ora brillante saggista, servirebbero ”come minino 50 mila uomini per controllare il territorio, fermare le auto, sorvegliare gli spostamenti, schedare le persone”. E occorrerebbe mettere in conto almeno 50 morti a settimana.

Gli fa il generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano nella missione di pace “Libano 2” e delle Forze Terrestri Alleate del Sud Europa. “Voler considerare la Libia di oggi come se si trattasse di una nazione organizzata su principi di carattere politico e strategico tradizionali, è una bestemmia – annota Angioni -. L’attuale confusione esistente in quest’area nordafricana a noi particolarmente conosciuta non consente di esprimere sulla Libia di oggi qualsiasi considerazione logica e avveduta. A regnare oggi in Libia è il caos, un caos armato, è la confusione, l’illecito, la malvagità, gli interessi più abietti che possono essere presi in considerazione in una comunità umana. La tragedia della Libia coinvolge esseri umani che con la Libia non hanno nulla a che fare e che anzi sarebbero ben felici di non essere in quel territorio, in quell’inferno.  Purtroppo per l’umanità, la Libia è la meta di decine di migliaia di persone dell’Africa disperate al punto di essere disposte a correre il rischio di essere uccise pur di avvicinarsi all’Europa. La Libia – rimarca il generale Angioni – è oggi una ‘palestra’ di arroganza nella quale agiscono attori esterni che conducono una guerra per procura. Pensare di poter affrontare questa situazione con qualche nave è una sciocchezza, una pericolosa sciocchezza. Sarebbe auspicabile che un organismo sovranazionale, come l’Onu ad esempio, imponesse con decisione la propria presenza non tanto per risolvere la drammatica situazione che segna la Libia ma almeno per ridurre il numero delle vittime”.

Il mercato degli schiavi

 A denunciarlo è l’Esercito nazionale libico (Lna) di Haftar. Una fonte del Comando Generale di Rajma, fuori Bengasi, ha rivelato all’emittente televisiva al Arabiya l’esistenza di un vero e proprio mercato dove si vendono migranti come se fossero merce nel villaggio di Adiri, nel distretto di Wadi al Shatii, a nord di Sebha. Secondo questa fonte, nel villaggio del sud della Libia i trafficanti di esseri umani si vendono i gruppi di migranti come se fossero in un mercato essendo quella una tappa del lungo viaggio dei migranti che attraversano il Sahara diretti verso le coste della Tripolitania. I migranti vengono venduti in cambio di centinaia o di migliaia di dollari. Lo ha scoperto di recente l’apparato di intelligence dell’Lna che ha trovato questo mercato in uno dei punti di transito principali del flusso di migranti. L’indagine è partita  dal confine meridionale della Libia dove operano le bande di trafficanti di esseri umani che fanno capo alle tribù Tebu, i quali ricevono questi migranti dal vicino Niger a bordo di furgone. Ogni migrante una volta arrivato al confine tra Niger e Libia deve pagare 500 euro per poter entrare in territorio libico. I migranti poi, una volta arrivati nella città di Sebha, vengono ammassati nella sede della vecchia compagnia indiana e consegnati ad un’altra banda che fa capo alla tribù dei al Muqaraha la quale ha il compito di dividere i migranti mettendoli in diverse caserme e depositi. Dopo qualche giorno i migranti vengono di nuovo radunati in una piazza che si trova a circa 6 chilometri dal centro di Adiri. In quel posto si trova il mercato nel quale i migranti vengono venduti a dei mediatori libici i quali li selezionano: i più forti vengono usati come mercenari per i combattimenti in corso, chi invece non è in grado prosegue il viaggio verso l’Europa. Alcuni migranti vengono presi al prezzo di 2 mila dollari e portati a Bani Walid per poi essere distribuiti a due gruppi: una parte viene presa dalle bande di Misurata e un’altra da quelle di Zuwara. Queste due bande hanno il compito di portarli sulla costa per poi farli partire sui barconi verso l’Europa.

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“In Libia ci sono ancora uomini, donne e bambini che rischiano la vita ogni giorno – rimarca Riccardo Gatti, presidente di Open Arms – . In Libia il Coronavirus non è l’unico problema, la loro vita è violata. Tutti i giorni”.

Ma questo popolo invisibile fa notizia solo quando produce allarme, quando viene vissuto come una minaccia, con un governo che insegue la destra sul terreno ad essa più congeniale: la demonizzazione dei migranti. Con l’aggravante che ora si usa la pandemia per giustificare l’ingiustificabile: la mattanza dei dannati della terra. E del mare. Mentre i ricatti continuano. Prima con i migranti, ora con i pescatori.

 

 

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